MAGGIO 2024.ISTITUTO COMPRENSIVO F.G. PIGNATELLI INNO A SAN FRANCESCO (2018).FESTE LITURGICHE PER SAN NICOLA A BARI,SAN CATALDO A TARANTO .

“NEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI ALL’INTERNO DELLA CHIESA E QUINDI DELLE PARROCCHIE, LE CAUSE CHE HANNO SPINTO LA GENTE AD ALLONTANARSI DA ESSA, È STATA LA CARENZA, FORSE APPARENTE, DI VITA SPIRITUALE NEL CLERO E NELLA CHIESA.

” RIFLESSIONI ED APPROFONDIMENTO DI COSIMO LUCCARELLI.

Solennità di San Francesco de Geronimo, Patrono di Grottaglie. L’associazione Anteas Grottaglie con immensa devozione al santo gesuita concittadino si rivolse nel 2018 all’Istituto Comprensivo di Grottaglie per comporre un Inno da dedicare al santo per il terzo centenario della morte. Oltre quello conosciuto dal popolo per tradizione, questo è l’unico composto e musicato dai ragazzi. Proviamo a cantarlo anche noi!

Il canto “Lode a te San Francesco” è nato su suggerimento dell’associazione ANTEAS di Grottaglie, nel terzo centenario di San Francesco De Geronimo.

La scuola secondaria dell’Istituto Comprensivo Pignatelli ha prontamente aderito con un lavoro di creazione testuale e musicale da parte degli alunni guidati dai docenti Maria Pellegrino e Armando Donatelli, su cui si è inserito il lavoro compositivo del docente Cosimo Rossetti.

Eseguito per la prima volta per coro e orchestra nel concerto finale dei corsi ad indirizzo musicale (giugno 2017) , in settembre è stato replicato in occasione dell’inaugurazione della cupola restaurata nel santuario dedicato al Santo grottagliese. Questa versione è stata registrata dal coro nello Studio Cryptaliae in ottobre dello stesso anno. Il video è stato realizzato con la collaborazione della prof. ssa Dora Bonfrate e del sig. Cosimo Luccarelli.

Una perfetta sinergia tra la scuola e l’associazione, per dare onore ad una figura importante nella storia del territorio e recuperarne i valori più autentici.

In Puglia a maggio si ricordano tre santi patroni: San Nicola (Bari), San Cataldo (Taranto), San Francesco de Geronimo (Grottaglie). Tre apostoli del passato, mediatori di innumerevoli miracoli, che sono riusciti a trasmettere all’uomo il desiderio di avere più fede: vedere Dio che lo abbraccia, che sostiene i suoi passi, che guida la sua vita. L’uomo del terzo millennio è diverso da quello di allora?  Perché rigetta questo intimo e vitale legame con Dio? Perché la cultura dei tempi moderni è segnata dalla non credenza e dall’indifferenza religiosa?

I pugliesi credenti e non credenti, festeggiano nel mese tre santi della storia che nel tempo hanno suscitato ampia devozione per l’opera di evangelizzazione svolta e per gli innumerevoli miracoli, ritenuti il vero suggello della “rivelazione” di Cristo. Vediamo chi sono:

San Nicola, nasce da una ricca famiglia a Patara di Licia, una regione che corrisponde all’attuale Turchia, il 15 marzo dell’anno 270. Fin da piccolo Nicola mostra spirito caritatevole e generosità verso gli altri. Tali doti lo favoriscono nella nomina a Vescovo di Myra. Una volta eletto, la tradizione racconta che Nicola comincia a fare miracoli. Naturalmente questi episodi

prodigiosi non sono stati documentati, quindi può trattarsi di fatti realmente accaduti ma “conditi” da elementi di fantasia. Si narra che San Nicola abbia resuscitato tre giovani morti e placato una terribile tempesta di mare. Perseguitato per la fede, imprigionato ed esiliato sotto l’imperatore Diocleziano, riprende l’attività apostolica nel 313, quando viene liberato da Costantino. Secondo le fonti del periodo, nel 325 Nicola partecipa al Concilio di Nicea. Durante l’assemblea, Nicola pronuncia dure parole contro l’Arianesimo a difesa della religione cattolica. La data ed il luogo della morte di San Nicola non sono sicure: forse a Myra il 6 dicembre 343, nel Monastero di Sion. Il culto di San Nicola è presente nella religione cattolica, nella Chiesa ortodossa e in altre confessioni facenti capo al Cristianesimo. La sua figura è legata al mito di Santa Claus (o Klaus) che in Italia è Babbo Natale, l’uomo barbuto che porta i doni ai bimbi sotto l’albero di Natale. Dopo la morte di San Nicola, le  reliquie rimangono fino al 1087 nella Cattedrale di Myra. Poi, quando Myra viene assediata dai musulmani, le città di Venezia e Bari entrano in competizione per impossessarsi delle reliquie del Santo e portarle in Occidente. Sessantadue marinai di Bari organizzano una spedizione marittima, riescono a trafugare una parte dello scheletro di San Nicola e la portano nella loro città, l’8 Maggio del 1087. Le reliquie vengono poste provvisoriamente in una chiesa, in seguito viene costruita la Basilica in onore del Santo. Il Papa Urbano II depone i resti del Santo sotto l’altare. Ben presto la Basilica diventa un punto di incontro tra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Nella cripta della Basilica, ancora oggi, si celebrano riti orientali ed ortodossi. Da allora il 6 dicembre (data della morte di San Nicola) e il 9 maggio (data dell’arrivo delle reliquie in città) diventano giorni festivi per la città di Bari. Nicola di Myra diventa quindi “Nicola di Bari”.

San Cataldo, nasce in Irlanda tra il 610 e il 620. I suoi genitori Euco Sambiak e Aclena Milar, divennero ferventi cristiani grazie all’opera di missionari venuti dalla Gallia. Da loro Cataldo ricevette l’educazione e l’amore per la preghiera, l’ubbidienza, l’ordine, la mortificazione e lo spirito di sacrificio. Alla loro morte Cataldo decise di donare tutta la loro eredità ai poveri. Quindi divenne discepolo di Carthagh, abate del monastero di Lismore in Irlanda, dove fu ordinato sacerdote. Nel 637, alla morte del suo maestro e padre spirituale, gli successe nella conduzione del monastero. Nel 670 fu ordinato vescovo e tra il 679 e 680 si recò a visitare la Terra Santa, in abito da pellegrino. Il santo sarebbe giunto a Taranto durante il viaggio in Terra Santa. Una leggenda racconta che questa scelta fu per volere divino: durante il soggiorno in Terra Santa, mentre era prostrato sul Santo Sepolcro, gli sarebbe apparso Gesù che gli avrebbe detto di andare a Taranto e di rievangelizzare la città ormai in mano al paganesimo. San Cataldo allora, salpando con una nave greca diretta in Italia, intraprese un lungo viaggio che lo portò a sbarcare nel porto dell’attuale Marina di San Cataldo, località a 11 km da Lecce che porta il suo nome. Sempre secondo la tradizione, il santo avrebbe lanciato un anello in mare per placare una tempesta e in quel punto del Mar Piccolo si sarebbe formato un citro, cioè una sorgente d’acqua dolce chiamata “Anello di San Cataldo”, tuttora visibile sotto forma di “polla d’acqua dolce”.

A Taranto Cataldo compì la sua opera evangelizzatrice, facendo abbattere i templi pagani e soccorrendo i bisognosi. In quel periodo si recò anche nei paesi limitrofi, tra cui Corato in provincia di Bari, di cui divenne patrono avendo per tradizione liberato la città dalla peste. Morì a Taranto l’8 marzo del 685 e fu seppellito, come era stata sua volontà, sotto il pavimento del duomo, nella parte orientale allora chiamata san Giovanni in Galilea, in corrispondenza dell’attuale battistero. La tomba, della quale si era perduta la memoria a causa della distruzione di Taranto, compiuta dai Saraceni nel 927, fu ritrovata il 10 maggio 1071, durante i lavori di scavo per la nuova cattedrale voluta dal vescovo Drogone. Le reliquie furono poste sotto l’altare maggiore del nuovo edificio, per essere poi traslate in una nuova cappella della cattedrale, dove attualmente si trovano. Quanto tempo sia vissuto a Taranto, non si sa con precisione: forse vent’anni. Si sa pero’ che mori’ molto vecchio e che anche dopo la sua morte accaddero eventi prodigiosi: ogni sorta d’infermita’ e di sofferenza venivano guarite solo toccando il suo corpo.

San Francesco de Geronimo, nasce il 17 dicembre 1642 nell’antichissima città di Grottaglie, a pochi chilometri da Taranto. Primogenito di undici figli, di cui tre ecclesiastici (Giuseppe Maria, Cataldo e Tommaso). I suoi genitori Giovanni Leonardo De Geronimo (1619) e Gentilesca Roy (1621), figlia di Antonio, che in seguito prese il cognome di Gravina per l’insistenza del popolo nel designarla con il nome della città di provenienza. La sua famiglia fu qualificata dai biografi contemporanei come «onorata» e «decorosa». Educato dai genitori e da una Comunità di sacerdoti, detta di S. Gaetano, costituitasi presso la chiesa di S. Mattia, il 25 maggio 1659 venne aggregato al Capitolo e Clero grottagliese e inviato al seminario di Taranto per continuare gli studi di retorica, scienze e filosofia presso il Collegio dei Gesuiti. Nel 1665 passò a Napoli per addottorarsi in teologia e in utroque jure. Ordinato sacerdote a Pozzuoli (1666), fu istitutore per qualche anno nel convitto dei Nobili diretto dai Gesuiti a Napoli. Nel 1670 cominciò il noviziato nella Compagnia di Gesù e svolse fino al 1674 un intenso apostolatomissionario nel Regno di Napoli e particolarmente nella diocesi di Lecce, rivelando doti straordinarie di predicatore zelante ed efficace. Tornato a Napoli, vi rimase per tutto il resto della vita, circa quarant’anni, dedicandosi alle missioni popolari che prevedevano tre momenti significativi: le “Missioni al popolo”, in piazza o per le strade; la “Comunione generale” ogni terza domenica del mese; la “Conversione delle donne di cattiva fama”. La sua infaticabile azione che si irradiava dalla chiesa del “Gesù Nuovo”, si rivolse anche agli addetti alle navi, ai galeotti, ai carcerati, agli artigiani, agli ammalati.

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Grande rilievo diede agli “Esercizi Spirituali” a varie classi di persone e specie alle religiose. Morì l’11 maggio 1716. Fu beatificato da Pio VII il 2 maggio 1806 e canonizzato da Gregorio XVI il 26 maggio 1839. Alla sua morte la salma venne sepolta di notte e di nascosto per evitare che la folla dei fedeli potesse ricavarne reliquie come fece poi distruggendo il suo confessionale, mentre già da tempo circolavano in città stampe e ritratti del gesuita considerati miracolosi ed appesi nei confessionali e nelle pubbliche vie. Sul suo sepolcro nella Chiesa del Gesù Nuovo, la domenica dopo la sua morte, 42.000 persone parteciperanno all’eucaristia, centro animatore e meta di tutta la sua attività, vitale oltre la morte stessa. Inattesa e rapidissima fu la diffusione, subito dopo la morte, della fama di santità e delle gesta meravigliose della sua vita non tanto, come naturale, a Napoli e nel suo regno, ma nei paesi d’Oltralpe e segnatamente in Germania, Austria, Belgio, Olanda, Boemia e Polonia.  La sua festa fu fissata nel giorno della sua morte. Il corpo del santo rimase nella Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli fino a dopo la seconda guerra mondiale, successivamente fu trasportato nella sua patria, nella chiesa dei Gesuiti di Grottaglie il 26 agosto 1945, in seguito ad una “peregrinatio” organizzata dall’allora padre Provinciale Alberto Giampieri. San Francesco De Geronimo è patrono di Grottaglie e compatrono di Napoli.

In questo nuovo millennio, nonostante il risalto di una fede cristiana di non credenza e di indifferenza religiosa, la devozione popolare verso questi tre potenti santi della storia, resta sempre attuale per gli innumerevoli miracoli operati sia in vita che post mortem, di cui alcuni ancora attuali come la Santa Manna di San Nicola. Una devozione circoscritta comunque alle generazioni adulte che in giovinezza hanno ricevuto un’antica formazione cristiana secondo i canoni dell’epoca, accettando senza pretese di convinzione una fede che scaturiva dalla catechesi, dalla predicazione, dagli esempi, dalle pratiche religiose, dalla scuola, dalla famiglia. Oggi la maggioranza dei non

credenti e degli indifferenti sono spesso degli ex cristiani e dei giovani che si qualificano come delusi o insoddisfatti, e che manifestano una “disaffezione” verso la credenza e le sue pratiche, giudicate senza significato, scialbe e poco incisive per la vita. Ciò è dovuto ad eventi negativi o spiacevoli vissuti durante il periodo dell’adolescenza, che ha condizionato il resto della vita, che col trascorrere del tempo si è trasformato in un rifiuto generale fino a diventare indifferenza.

Negli ultimi cinquant’anni all’interno della chiesa e quindi delle parrocchie, le cause che hanno spinto la gente ad allontanarsi da essa, è stata la carenza, forse apparente, di vita spirituale nel clero e nella chiesa. Quando poi accade che alcuni del clero conducono una vita immorale, molti rimangono turbati.  Tra le cause di scandalo occupano il primo posto, a causa della gravità oggettiva, gli episodi di abusi sessuali su minori, e la superficialità della vita spirituale; la ricerca esagerata del benessere materiale, specialmente in zone dove la maggior parte della popolazione versa in condizioni di estrema povertà, risalta maggiormente. Per molti cristiani l’identificazione con la fede è fortemente legata ai principi morali, che essa sottende, e certi tipi di comportamenti scandalosi da parte di sacerdoti hanno degli effetti devastanti e provocano in questi cristiani una profonda crisi nella loro vita di fede. Se in passato agli uomini illuminati dalla luce di Cristo, ai missionari, ai sacerdoti, si chiedeva dei nuovi modi di predicare, di catechizzare, di pregare, di celebrare la liturgia perché in loro c’era pazienza, povertà, servizio agli altri, consolazione, alle attuali generazioni cosa va recuperato per risolvere il problema della “disaffezione” verso la credenza e le sue pratiche, valutate prive di significato, spente e poco penetranti nella vita?

Ogni generazione è portatrice e produttrice di una sua cultura, di un suo linguaggio e gergo, di suoi riti di riconoscimento. Perfino ogni soggetto tende a diventare autoreferenziale. Il fenomeno è chiaramente constatabile nell’arte contemporanea, nella quale si osserva facilmente come ogni autore crea un suo universo e un suo linguaggio. Per questo si fa sempre più difficoltà ad individuare gesti consolidati, racconti condivisi, consuetudini che rappresentino il substrato comune che lega i figli ai genitori e viceversa. Viene anche meno in tal modo, il tradizionale processo di iniziazione alla vita sociale, che presupponeva una comunità di adulti coesa nella quale i giovani venivano introdotti progressivamente con riti di passaggio che completavano e portavano a compimento l’atto generativo di filiazione.

La crisi della fede oggi, in Italia come in gran parte del mondo occidentale, è una crisi di trasmissione, che investe non solo le parrocchie, la chiesa, ma in primo luogo le famiglie, come ambienti di comunicazione per eccellenza. È venuto meno in larga parte il senso dell’eredità ricevuta e da riconsegnare, ovvero il senso di essere non il centro o il termine, ma uno snodo di passaggio di un disegno storico più grande. Se si parla di eredità è ormai solo nell’accezione pecuniaria del termine. La difficoltà che la fede oggi incontra nel trovare luoghi di messa a dimora e di attecchimento, almeno nel nostro occidente, e soprattutto una crisi culturale, e solo di riflesso religiosa ed ecclesiale. In altre parole, il Vangelo trova un terreno sociale refrattario, se non impermeabile, nei giovani e in gran parte della società moderna affascinata da miti moderni come calciatori, cantanti, Tik Toker, influencer, ballerini e artisti di vario tipo. Recentemente è scoppiata la moda di seguire ciò che fanno i cosiddetti “influencer” che recensiscono tutto ciò che comprano, decidono di consigliarlo oppure no e postano foto per chiedere ai loro “followers” come si trovano con i prodotti che hanno acquistato.

Il Concilio Vaticano II, già quarant’anni fa, rilevava questa grave situazione: «Molti nostri contemporanei, tuttavia, non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano questo intimo e vitale legame con Dio, così che l’ateismo va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo, e va esaminato con diligenza ancor maggiore» (Gaudium et spes).

Parlando con giovani e adulti delusi o insoddisfatti che manifestano una “disaffezione” verso la fede, ho rilevato tre archetipi di disaffezione cattolica: il “ferito”, il “vagabondo” e il “dissidente”.

I “feriti” sono giovani e meno giovani che hanno vissuto un disagio o una tragedia in cui Dio sembrava essere assente. Nonostante la preghiera rivolta a Dio, alla Madonna, ai Santi per guarire il familiare, la morte ha prevalso senza alcun aiuto. Scaturisce così lo «scetticismo» nella fede.

I “vagabondi“, invece, raggruppano giovani e adulti che hanno spesso avuto problemi a collegare la propria identità di cattolici battezzati alle concrete esperienze di vita: non hanno ritrovato in loro stessi una motivazione valida del perché essere cattolici e così, pian piano, si sono allontanati. La motivazione principale è da attribuire ai sacerdoti, che nella maggioranza dei casi, non sono più una figura credibile, una persona degna di fede non per il ruolo che svolge ma per l’integrità e la coerenza della sua condotta di vita. Può essere colto o ignorante, di origini umili o elevate, di modi gentili o ruvidi, di spirito polemico o dialogante: non è ancora su queste

cose che si può e deve misurare la fedeltà del sacerdote a Cristo e agli uomini. Oltre ai sacerdoti gli altri responsabili per i giovani sono i genitori, che non hanno affrontato il tema dell’abbandono dalla Chiesa dei figli, quando si sentono inadeguati a spiegare le ragioni e l’importanza della fede.

I “dissidenti” sono le nuove generazioni che sono entrati in disaccordo con l’insegnamento della Chiesa su tematiche etiche, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle nascite, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e la sessualità in generale. Sono determinanti anche gli scandali all’interno della Chiesa (come le questioni economiche-finanziarie e la pedofilia). Ma la causa principale che induce il dissidente ad allontanarsi dalla fede è la mancanza di cura delle sue ferite nell’anima che sacerdoti, educatori e genitori non attuano come avveniva nel passato.

All’inizio di questo terzo millennio la società moderna, di qualsiasi razza e credo religioso, deve ritrovare quell’intimo e vitale legame con il proprio Dio attraverso la fratellanza.  Per far si che tutto questo avvenga, i credenti devono essere credibili ed autorevoli. Non basta indurre ragazzi e giovani a fare presenza alle attività religiose. Il compito degli educatori è di essere tali, cioè saper dare le ragioni per cui loro stessi (genitori, sacerdoti, formatori, insegnanti) scelgono ogni giorno di appartenere a Dio e non al mondo. Oggi i cattolici, in particolare, devono generare novità esistenziali e visibili nella persona, altrimenti rimarrà qualcosa di esterno e ci si troverà incapaci di generare frutti. Si possono dare lezioni e informazioni teoriche sulla dottrina, ma senza essere entusiasti e testimoni capaci di rimarginare le ferite e risolvere i dubbi dei giovani e dei “disaffezionati” con evidente testimonianze attraverso la propria vita, le parole saranno spazzate via dalle distrazioni sociali e mediatiche provocate dai nuovi “miti” della società moderna.C’è bisogno di ritrovare la fede e la ricerca parte da un lavoro di conoscenza di sé stessi. Rientriamo in noi stessi, estraniandoci dalla routine quotidiana, reclamando un momento di solitudine e silenzio. Solo così potremo trovarci nella condizione di riflettere in modo profondo e consapevole

sulla nostra vita. E una delle prese di coscienza più importanti sarà sicuramente quella che riguarda i nostri vizi. Riconoscere i propri vizi è il punto di partenza fondamentale per correggere comportamenti e attitudini. I vizi sono la più comune e diffusa pratica del male che coinvolge e accomuna la maggior parte degli esseri umani.  Si tratta di abitudini finalizzate di solito al soddisfacimento di un bisogno o di un desiderio, che divengono così radicate nello spirito umano da risultare a un certo punto indispensabili.

La chiesa attraverso i suoi ministri deve attuare un radicale cambiamento. Religiosi, sacerdoti, uomini e donne di vita consacrata devono testimoniare attraverso la loro vita l’autenticità della propria scelta, nella predicazione, nell’iniziazione cristiana, nella celebrazione dei sacramenti, nell’accompagnamento dei giovani, nella preparazione al matrimonio, nella presenza alla vita delle famiglie, nel servizio ai poveri, nella vicinanza alla sofferenza, nella prossimità alla morte.  La fratellanza nella fede non si applica solo per i piccoli gruppi del vangelo o nelle celebrazioni particolarmente intense in situazioni particolari della vita, ma soprattutto nell’esercizio del proprio ministero. La gente apprezza la fratellanza soltanto se il clero non si mette sopra di loro credendosi migliori, ma neppure se ci si mimetizza con loro, senza essere fratelli maggiori nella fede. Lo stile di vita del clero, dei religiosi, dei laici consacrati è il banco di prova della loro trasparenza cristiana, perché vivono il vangelo come lo hanno testimoniato San Nicola, San Cataldo, San Francesco de Geronimo, ai quali i pugliesi continuano a portare grande devozione.