13/20.SPECIALE UVA NOSCIA.IL SISTEMA RURALE DELLE MASSERIE DEL MERIDIONE:LA DOGANA ARAGONESE ED IL PAESAGGIO SOCIALE DAL XVI -XVII SEC. (PARTE 13 /20).

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L’AGRICOLTURA MERIDIONALE DALLA FINE DEL SETTECENTO AI PRIMI ANNI DEL NOVECENTO

L’esistenza oggettiva della questione agraria come problema di fondo della società meridionale fu’ posto in evidenza dai movimenti rivoluzionari che caratterizzarono della scena politica del Regno di Napoli e che sfociarono nella istituzione della Repubblica Partenopea nei termini della “ questione feudale” fu appunto questo il periodo in cui, il problema di una riforma della distribuzione fondiaria fu concretamente posto per la prima volta, nell’Italia meridionale, in termini generali.

La letteratura riformistica aveva già condotto una vigorosa polemica a proposito del latifondo feudale; ma nella visione illuministica la riduzione e lo

spezzamento della proprietà terriera dove essere il risultato spontaneo di una maggiore libertà economica, dell’abolizione dei vincoli al commercio delle terre e dei privilegi che permettevano ai baroni di integrare proventi di natura amministrativa e fiscale la rendita fondiaria. Ma alcuni gruppi “ giacobini” approfondirono i termini della lotta neo-feudali, superando i limiti della riforma giuridica dell’istituto della proprietà e posero apertamente il problema della confisca delle terre baronali e del mutamento della distribuzione fondiaria.

Pagano scrive “ il Cuoco, credeva di non essere giunto il tempo di decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni dei diritti feudali, ma voleva che non si toccassero i terreni, quasi che un popolo non dovesse essere oppresso, ma potesse essere legittimamente misero”.

La discussione sui fondi, iniziata nel consiglio legislativo della Repubblica napoletana il 18 Febbraio 1799, rinviata al 7 Marzo si svolse nell’Aprile, quando già nelle provincie la reazione aveva organizzato le sue file e l’esercito reazionario della “santafede” aveva ottenuto notevoli successi nelle Calabrie. Era già un grave segno di debolezza del movimento repubblicano il fatto che essa fosse affrontata con tanto ritardo. Il testo definitivo della legge antifeudale prevedeva della giurisdizione e dei privilegi baronali e manteneva i baroni nel possesso delle loro terre, attribuendo ai comuni soltanto il “ demani feudali”, cioè quelle parti del feudo ( prevalentemente bosco e pascolo), su cui si esercitavano pienamente gli usi delle popolazioni; le altre terre, anche feudali, restavano in piena proprietà dei baroni. La legge fu approvata definitivamente il 25 Aprile del 1799.Successivamente per il periodo successivo al 1906, le riforme di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, eliminando le sopravvivenze giuridiche feudali e ammodernando la struttura dello Stato, liberando l’attività produttiva e la proprietà terriera dei vecchi vincoli creavano le condizioni per una più rapida evoluzione economica e sociale. Gli anni che vanno dal 1806 al 1805 sono perciò senza dubbi un periodo di progresso per il mezzogiorno. Alla vigilia della eversione della feudalità, la stragrande maggioranza delle terre appare costituita , nel Mezzogiorno da demani feudali, comunali e di proprietà ecclesiastica, sulle quali non si affermano forme di impresa capitalistica, con impiego di pastori salariati e di lavoranti a giornata, nettamente predomina la concessione precaria di singoli appezzamenti e una folla di terradicanti, che

vi lavoravano con i loro rudimentali mezzi di produzione e corrispondono al signore una quota del prodotto. In oltre , l’uso dei pascoli, esercitando, sui maggesi e sulle ristoppie ( campi aperti) oltre che sui demani comunali e feudali, consente alla massa di questi precari coltivatori non solo l’integrazione dei loro proventi agricoli con quelli di un piccola industria pastorale del tipo familiare, ma anche e particolarmente un mantenimento di quel minimo di bestiame da lavoro, che è indispensabile all’esercizio dell’industria agricola stessa.

A partire dalla prima legge di Giuseppe Napoleone, nel 1806, cominciarono a rompersi questo stato equilibrato di cose. La prima fase delle operazioni eversive comportò la cosi-detta “ ripartizione in massa”: con la quale i diritti promiscui appunto, che le popolazioni ed i baroni vantavano sui demani feudali, venivano sciolti, attribuendo ai comuni una parte dei demani stessi, ed attribuendo il resto all’ex feudatario, in piena proprietà e libera ormai da ogni vincolo ed a ogni uso civico.

Anche a prescindere da questa ripartizione in massa dei demani feudali, le leggi eversive sancivano per tutte del Regno la franchigia dalla mutua servitù di pascolo, alla quale in passato erano state sottoposte , sicchè a ciascuno per godere ti tale franchigia bastava chiudere ormai a difesa il proprio feudo. Con la ripartizione in massa dei demani feudali, come si vede, lungi dal favorire la costituzione di una stabile azienda contadina, della sua tradizionale precarietà si aggravano ancora i pericoli. Solo per le colonie perpetue in effetti, stabilite su questi demani in base all’antichissimo “ Jus coloniae” , si riconosceva al coltivatore il diritto della stabilita sul fondo, dietro il pagamento all’ex feudatario di un canone d’altronde affrancabili.

All’infuori di questo caso nessun diritto veniva riconosciuto al coltivatore su quella parte delle terre demaniali sulle quali in passato egli aveva esercitato i suoi usi civici si semina, di pascolo, di legnatico, ecc., e che veniva ormai assoggettato in piena proprietà all’ex barone; e la perdita di questi usi, la cui cessazione era destinata di per se stessa a sconvolgere l’equilibrio già Così precari dell’economia contadina, non poteva certo essere compensata dall’assegnazione , alle comunità della restante parte del demanio feudale, secondo una proporzione che tutte le fonti riconoscono come assolutamente inadeguata alla reale portata economica degli usi civici che le popolazioni in passato avevano esercitato sulle terre feudali. Si tratta in realtà piuttosto che di una ripartizione, di una vera espropriazione in massa dei diretti coltivatori dei feudi. Alla ripartizione in massa, in effetti, ed alla attribuzione alle Comunità di una parte almeno degli antichi demani feudali, avrebbe dovuto seguire, nella seconda fase dell’operazioni eversive, la quotizzazione dei demani stessi.

Ma non a caso, in questa seconda fase , le operazioni procedono, per tutta la prima metà del secolo XIX , con estrema lentezza. Gli antichi feudatari, ma sopra tutto la nuova borghesia terriera, che si è impadronita delle amministrazioni, ne approfittano per usurpare sfacciatamente le migliori terre assegnate alla comunità con la ripartizione in massa. Così si sono formati , come è noto, molti dei più cospicui patrimoni della borghesia terriera meridionale. Ma anche là dove le quotizzazioni vengono realizzate, in piccoli lotti assegnati  ai coltivatori diretti si riconcentrano rapidamente, nella maggior parte dei casi, nelle mani degli ex baroni o, più sovente, in quelle della nuova borghesia che è venuta nel frattempo ingrossando il suo patrimonio terriero con l’acquisto dei beni ex ecclesiastici ed ex feudali , gettati in massa sul mercato, questi potevano essere acquistati a condizioni di eccezionale favore.

Di queste condizioni beneficiano in qualche caso, anche i gruppi di coltivatori più agiati che si vengono differenziando dalla massa della popolazione contadina, che ingrossano il loro patrimonio con il commercio dei prodotti agricoli e con l’usura, e che allargano nelle loro masserie l’impiego dei lavoratori salariati. Ma per la massa dei lavoratori, la cui economia è stata sconvolta dall’abolizione degli usi civici o dalla loro limitazione, la riduzione a coltura del piccolo lotto steso che è stato a loro assegnato diviene, sovente, un problema insolubile: mentre manca la disponibilità per le necessarie anticipazioni culturali, persino il mantenimento di un paio di buoi, indispensabile per i lavori di dissodamento, diviene impossibile, ora che essi non possono più godere dell’uso civico di pascolo sulle terre demaniali. Non può meravigliare che , che in queste condizioni, l’efficacia delle leggi eversive della feudalità risultasse da prima, per quanto riguarda la costituzione di stabili aziende contadine, negativa più tosto che positiva, sicchè ancora aggravata ne restava, in un certo senso , la disgregazione sociale e delle popolazioni del grande Mezzogiorno .

Non è da sottovalutare certo, l’importanza delle prospettive che queste leggi aprono, fin d’ora, all’evoluzione capitalistica dell’azienda signorile, le cui forme più sovente si confondono ormai, con quelle della nuova grande impresa terriera borghese. Ne l minore risulta l’importanza, d’altra parte, della stabilità ormai raggiunta dall’azienda contadina sulle colonie perpetue, o nelle masserie di quei contadini-capitalisti, che più rapidamente adesso si vengono differenziando dalla massa dei coltivatori. Attorno al 1860 la “ ripartizione in massa “ dei demani ex feudali risulta già quasi conclusa nel mezzogiorno, con l’attribuzione ai comuni dei 600.000 ettari di terra ( sui 750.000 loro assegnate al termine dell’ operazioni).

Se a questi 600.000 ettari si aggiungono gli altri 520.000 di beni patrimoniali, il patrimonio che le leggi eversive hanno attribuito alle comunità appare relativamente cospicuo: ma tra il 1806 ed il  1860   di questo ingente patrimonio, solo 250.000 ettari erano state ripartiti tra i 116.000 quotisti, mentre il rimanente era generalmente restato soggetto ad usi civici tradizionali, o era stato usurpato dai privati cittadini.

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