SPECIALE L’UVA ‘NOSCIA 2024.LA STORIA DELLA VITICOLTURA IN PUGLIA. ”L’UVA ‘NOSCIA” E LE SUE ORIGINI.ELOGI DI ORAZIO E PLINIO IL VECCHIO.IL NERO DI TROIA ARRIVA DA FIRENZE.

“VINUM” È ENTRATA IN TUTTE LE LINGUE INDOEUROPEE, LA PAROLA “MERUM” È RIMASTA INVECE SOLO NEI DIALETTI PUGLIESI, DOVE ANCOR OGGI IL BUON VINO SI CHIAMA “MJIER”O “MIERU.

ORAZIO PARAGONÒ I “MERA TARANTINA” AL PIÙ FAMOSO DEI VINI ROMANI, IL FALERNO DELLA CAMPANIA. E DOVE PLINIO IL VECCHIO DEFINÌ MANDURIA , CITTÀ “VITICULOSA”, CIOÈ PIENA DI VIGNE.

Firenze 1750 Luigi Vanvitelli, su suggerimento del futuro Vescovo della città di Troia(FG) Marco De Simone (1752-1777) a visitare  “…l’orto-giardino di palazzo Pandolfini, giardino all’italiana di una famiglia che contava e vantava ben due Vescovi di Troia, Giannozzo Pandolfini (1484-1514) e il nipote Ferdinando Pandolfini (1514-1560)…ciò che aveva particolarmente colpito Luigi Vanvitelli era stato quell’Orto di Troia, incastonato come una gemma preziosa nel

Giardino, dove continuavano ad essere coltivate carciofi, insalate, rucola, melenzane, tanni di zucca, fichi, ulivi e UVA DEL NERO DI TROIA, che Giannozzo Pandolfini aveva voluto portare con sé aò termine del suo mandato. A testimonianza di un affetto e di un legame saldamente  e profondamente radicati con la comunità della cittadina dauna, da curare e tramandare attraverso una sana, intima e “benedetta” contaminazione naturale”.(2)

 Giannozzo Pandolfini figlio di Pandolfo e di Costanza Guicciardini, era il terzo di sette fratelli. Nel 1522 rinunciò al vescovado della città di Troia(Fg)  in favore del nipote Ferrando , per dedicarsi ai suoi interessi a Roma, dove morì tre anni dopo. La storia con i suoi accadimenti, nel caso del nero di Troia, certificano che l’origine di questo “superbo” frutto arriva a noi da Firenze dalla culla del rinascimento, un frutto che avrà certamente assaporato l’architetto Vanvitelli , progettista della Reggia di Caserta.

GRAPPOLI-FOSSILI DELLA LESSINIA

Ma proseguiamo con la ricerca ed il racconto del frutto di Dioniso .(3)

La filogeografia della vite coltivata è legata alla storia di antiche popolazioni stanziate nel bacino del Mar Caspio, nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo Bacino. La coltivazione dell’uva e la vinificazione iniziarono da qualche parte nel Caucaso meridionale, nella mezzaluna fertile settentrionale o nel Levante, in seguito alla domesticazione di forme locali dell’antenato selvatico Vitis vinifera che ha un’ampia distribuzione geografica costituita da piccole popolazioni isolate sparse in Europa, Africa settentrionale e Asia occidentale. Dalla culla della domesticazione, le cultivar dell’uva hanno seguito un modello di dispersione predominante verso ovest, guidato dalla migrazione umana e dai commerci marittimi, parallelo a una differenziazione nell’uso per il consumo fresco (uva da tavola) o per la vinificazione (uva da vino).

KVEVRI, PRIMIGENIE ANFORE IN TERRACOTTA GEORGIANE PER LA FERMENTAZIONE DEI PRIMI VINI

L’uva da tavola fu introdotta anche verso est, nell’Asia centrale, lungo le rotte commerciali terrestri. La coltivazione dell’uva domestica risale a quattro millenni fa nel Mediterraneo orientale e a due millenni nell’Europa occidentale, con la propagazione vegetativa sempre più prevalente come modalità di riproduzione per preservare l’identità genetica di pregiate accessioni che potrebbero essere nate da incroci spontanei. Le varietà dell’Europa occidentale sono il fondamento dell’industria vinicola globale, con dieci varietà (Cabernet Sauvignon, Merlot, Tempranillo, Airen, Chardonnay, Syrah, Grenache, Sauvignon Blanc, Pinot Nero, Trebbiano Toscano) che rappresentano il 26% dei vigneti in tutto il mondo.

Le uve selvatiche si trovano occasionalmente anche in Europa come ibridi tra sylvestris genuinamente autoctoni e fuggiti dai vigneti (lambrusques métisses) o popolazioni di piantine naturalizzate di sativa che crescono al di fuori dei terreni agricoli (lambrusques coloniales), di seguito denominate collettivamente specie selvatiche occidentali. La creazione dell’uva da vino europea sono dominati dall’introduzione di uva da tavola dall’Oriente seguita da un flusso genetico ampio e frequente da forme selvatiche locali.

L’uva da vino europea potrebbe aver avuto origine dall’ibridazione di uve da tavola addomesticate in Asia occidentale con viti selvatiche europee locali. Lo rivela una ricerca condotta dall’Università di Udine e dall’Istituto di Genomica Applicata (IGA) di Udine.

LE ORIGINI DELL’ UVA IN PUGLIA E DEL PRIMITIVO (4)

La vite era probabilmente presente in Puglia prima dei tempi della colonizzazione greca già nel VIII secolo a.C. Alcune delle varietà oggi considerate autoctone di questa regione come il Negro Amaro e l’Uva di Troia vi sono state introdotte proprio dai Greci. Greco è anche il sistema di coltivazione della vite ad “alberello”, il metodo più diffuso in Puglia. Nella sua monumentale opera Naturalis Historia, Plinio il Vecchio ricorda che in Puglia erano presenti le Malvasie Nere di Brindisi e Lecce, il Negroamaro e l’Uva di Troia. Plinio il Vecchio definì Manduria come viticulosa, cioè “piena di vigne”.

Con la costruzione del porto di Brindisi nel 244 a.C. il commercio del vino pugliese conobbe un periodo piuttosto fiorente e a Taranto, con lo scopo di facilitare la spedizione e l’imbarco, si conservano enormi quantità di vino in apposite cantine scavate nella roccia lungo la costa. Dopo la caduta dell’impero romano, la viticoltura e la produzione di vino in Puglia subirono un periodo di crisi e fu solo grazie monaci che le due attività continuarono a prosperare in Puglia. L’importanza dello sviluppo della viticoltura e della produzione del vino fu ben compresa anche da Federico II che fece piantare migliaia di viti nella zona di Castel del Monte, importando le piante dalla vicina Campania.

Durante il Rinascimento i vini della Puglia cominciarono a diffondersi nelle altre zone d’Italia e in Francia. Nei periodi successivi la Puglia si farà sempre notare per le enormi quantità di vino prodotte, piuttosto che per la loro qualità. Quando la fillossera fece la sua comparsa nei vigneti del nord Italia e in Europa, le enormi produzioni di vino della

Puglia fecero sentire meno gli effetti di questo flagello, arrivando perfino in Francia, dove la produzione non era sufficiente a soddisfare le richieste locali.

Il ritardo nell’arrivo della fillossera fece giungere in Puglia imprenditori francesi che qui iniziarono a produrre vino da esportare in Francia, Germania e Austria. Ma alla fine la fillossera arrivò anche qui, segnando il crollo di quella che sembrava un fiorente ripresa. Negli anni seguenti videro una produzione massiva senza nessun criterio di qualità, prevalentemente concentrata sui vini da taglio, destinati a dare corpo e colore alle produzioni di altre zone d’Italia e d’Europa. Bisognerà attendere gli anni 1990 perchè si registri in Puglia una nuova consapevolezza delle potenzialità enologiche della regione da parte di produttori locali e anche di cantine provenienti da altre regioni d’Italia.

IL PRIMITIVO DI MANDURIA TRA STORIA E LEGGENDA (5)

La storia del Primitivo si perde nella notte dei tempi. Giunto in Puglia con ogni probabilità dall’altra sponda dell’adriatico per mano degli Illiri, popolo della regione balcanica dedito alla coltivazione della vite, iniziò ad essere commercializzato in tutto il Mediterraneo dai Fenici antichi frequentatori delle nostre coste. E quando successivamente i Greci iniziarono a colonizzare il sud Italia (VII sec. a. C.) diffondendo soprattutto in Campania e Lucania i loro vitigni a bacca nera, il vino Ellenico (precursore dell’Aglianico) per quanto pregevole non penetrò in Puglia, segno questo che qui il vino nero e forte già esisteva. Prova ne è il fatto che in epoca romana accanto alla parola “vinum” si utilizzava anche la parola “merum” per indicare il vino schietto, sincero, puro in contrapposizione al primo che indicava il vino miscelato con acqua, miele, resine ed altri addittivi per renderlo più sciropposo.

Ebbene mentre la parola “vinum” è entrata in tutte le lingue indoeuropee, la parola “merum” è rimasta invece solo nei dialetti pugliesi, dove ancor oggi il buon vino si chiama “mjier”o “mieru”. Come mai?

Evidentemente il vino che già si faceva in Puglia non era “vinum”, ma “merum” nel senso di schietto, puro, vero; cioè vino buono, pregiato. E ciò sin dai tempi più antichi, prima dei romani e dei greci, quando le popolazioni autoctone forse usavano il lemma “mir” che in il lirico ( e ancor oggi in albanese) vuol dire buono, bello, ben fatto per indicare il loro vino rosso. Il Primitivo dunque può considerarsi il più diretto erede dell’antico “merum”, il vino storico per eccellenza della Puglia, quello che per primo si affermò e divenne famoso nei dintorni di Taranto, dove Orazio paragonò i “mera tarantina” al più famoso dei vini romani, il Falerno della Campania.

E dove Plinio il Vecchio definì Manduria (oggi principale centro di produzione di questo vino), città “viticulosa”, cioè piena di vigne. Ma anche altri scrittori romani, come Marziale, Ateneo, Varrone, citarono ed elogiarono questi vini. Quelli che ab antiquo coltivavano tali vigne erano uomini liberi, in libere città confederate, come la cittadella peuceta di Monte Sannace a Gioia del Colle, dove gli scavi archeologici hanno portato alla luce impianti di vinificazione o quella messapica di Brindisi dove sulla moneta fu coniata l’immagine del poeta-musico Arione che, con grappolo e coppa in mano, cavalca un delfino perché egli, inventore del ditirambo dionisiaco, fu gettato in mare dai pirati tirreni e tratto in salvo da un delfino attratto dal suo canto bacchico. Invece con i romani si diffuse il latifondo e la schiavitù.

La coltivazione servile pian piano tolse ai vini trentini il loro carattere speciale, dovuto si al clima, alla terra e al vitigno, ma anche al libero lavoro umano e alle sue tecniche di coltivazione e conservazione, che richiedono tanta cura e tanto amore individuale. Iniziò così la decadenza che si protrasse per tutto il medioevo quando solo i monaci basiliani nel Salento e i monaci benedettini sulla Murgia tennero viva la coltivazione della vite secondo le antiche abitudini dei contadini del posto. Tant’era il pregio e la vigoria dei vini ricavati dalle uve autoctone che i monaci basiliani provenienti dall’Oriente avviarono un discreto export con le loro terre natali (Libano, Siria) dai porti di Taranto, Gallipoli, Otranto e Brindisi. E proprio qui, da dove partivano migliaia di pellegrini e militari per le Crociate, nacque la parola “brindisi” col significato di solenne bevuta di vino augurale. I crociati, infatti, prima di imbarcarsi per la grande avventura in Terrasanta, facevano bisboccia bevendo vino pugliese in gran quantità ed invocando vittoria e salvezza. Il che fu detto poi ovunque “fare come a Brindisi”, “Fare a Brindisi”, “Fare Brindisi”.

Anche in età moderna ci fu chi seppe apprezzare i vini salentini, come Lorenzo il Magnifico che li serviva ai simposi d’onore; come Venezia che durante la guerra coi turchi si riforniva di vino a Brinidisi; o come i francesi che lo scoprirono nell’occupazione del 1568. I primi documenti storici attendibili sul diffondersi di questo straordinario vitigno risalgono però alla seconda metà del 1700, quando un uomo di chiesa, don Francesco Filippo Indellicati primicerio della chiesa di Gioia del Colle notò che tra i tanti vitigni che si usava coltivare nelle sue vigne, ve n’era uno che giungeva a maturazione prima degli altri e dava un’uva particolarmente nera, dolce, gustosa che si poteva vendemmiare già a fine agosto.

 L’Indellicati selezionò quella varietà ed impiantò un vigneto tutto di quel tipo; nacque così la prima monocoltura di “Primaticcio” che grazie ai suoi pregi quantitativi e qualitativi si estese ben presto in tutti gli agri di Gioia del Colle, Altamura e Acquaviva delle Fonti. Se nelle Murge il Primitivo inizia a brillare di luce propria, sarà poi nelle soleggiate terre salentine ed in particolare in quelle circostanti gli agri di Manduria e Maruggio che troverà un habitat particolarmente favorevole al miglioramento delle sue qualità.

Questo ultimo breve viaggio del Primitivo lo si dovette alle nozze tra la contessina Sabini di Altamura e Don Tommaso Schiavoni – Tafuri di Manduria. La nobildonna infatti portò dalla sua città natale alcune barbatelle scelte della preziosa pianta, una specie di dote che il marito manduriano seppe sfruttare molto bene. E visto che il Primitivo di Manduria veniva più alcolico, corposo e più rosso violaceo di quello di Gioia i francesi vollero proprio questo vino quando alla fine degli anni ’80, la fillossera distrusse tutti i vigneti del Roussillon, la regione che forniva vino da taglio a tutta la Francia. Nacque così la vocazione al taglio del Primitivo di Manduria, anche se più che una vocazione, lo si dovrebbe definire un matrimonio d’interesse, dato che i nuovi acquirenti d’oltralpe consentivano di incamerare lauti guadagni. Così il famoso vino rosso tarantino non fu solo bevuto e consumato in loco, ma riprese alla grande le vie del commercio internazionale.

(1) EPISCOPIVS TROIANVS-Il taccuino di Troia. Antonio V. Gelormini. GELSOROSSO-BARI 2012

(2) https://vigneviniequalita.edagricole.it/ricerca/lorigine-delluva-da-vino-e-una-sola/

(3) https://vigneviniequalita.edagricole.it/ricerca/lorigine-delluva-da-vino-e-una-sola/ ; https://www.nature.com/articles/s41467-021-27487-y

(4) https://www.mywineclub.it/storia-della-viticoltura-in-puglia/

(5) https://www.produttoridimanduria.it/primitivo/tra-storia-e-leggenda/