Di MARIO PETRAROLI
LU SIBBOLCRRU TLÀ GGHIESIA TLÙ CARMUNU
Entrai in sagrestia e trovai seduto sulla poltroncina, il sempre caro Don Cosimo Occhibianchi, occhiali da vista inforcati, gomiti poggiati su quella antica scrivania di noce, con una mano si teneva la fronte, con l’altra teneva un evidenziatore giallo e sottolineava chissà quali passi dei suoi preziosi libri di Filosofia, in alto sul muro al centro sopra il guardaroba dei paramenti sacri in formica marrone scuro, un quadretto rettangolare con su scritto Silentium. Buonasera Don Cò. Ahe Mario, “ci ieri pollice t’era cazzatu la capu”, (modo di dire grottagliese mentre si parla di una persona questa ti si presenta davantil) proprio mezz’ora fa chiedevo a tuo cugino Luigi cc’e fine ieri fattu. Eh si ero fuori, sono stato a Spoleto e prima ancora a La Verna, La Verna?

Hia mamma ss’è sciutu m’paradisu n’erra? mè piggghia la seggia e sietete, cunteme… Parlammo per non so quanto tempo, mi soffermai su uno dei filosofi che più mi avevano colpito durante il mio, diciamo pellegrinaggio, Soren kierkegaard, non sapevo che Don Cosimo era un suo estimatore, iniziò la colta e lucida narrazione sulle capacità dell’uomo a chiedersi dove andare, cosa scegliere, al contempo domandavo, sull’esistenza umana, sulle possibilità annesse, sull’angoscia che questo porta, e sul grave rischio che ciò può portare alla disperazione, Don Cosimo svelto aggiunse, Soren il grande filosofo, concluse: la fede non astratta, ma la Fides come ultima e considerevole scelta, annulla ogni effetto negativo legato al cammino di un uomo. Mamma mia pensai quest’uomo conosce kierkegaard, più del mio padre guardiano di La Verna che era danese conterraneo del grande filosofo. Si era fatto tardi, cambiando totalmente discorsi volli tornare al presente Beh, Don Cò com’ete st’annu lu sibbolcru? Mi fissò, si tolse gli occhiali e aggiunse, Naa menchia allora nò è capitu niente, cc’è t’nè scurdatu?

Ogn’anno il Parroco, alzando gli occhi al cielo in segno disperato, ci fa la sorpresa, o almeno la fa a me, tutti sanno cosa ha composto intra quera capu, iu sulu non c’hagghiè sapei gniente, ca iu pi mucita putea stò qua intra, pi inchimientu di munnu! Ci guardammo negli occhi e ci facemmo una risata di gusto. Non ho mai compreso come hanno fatto queste due persone diversissime a convire per così tanti anni. Si volevano bene e al contempo si mal sopportavano. Don Cosimo Occhibianchi semprava un sacerdote di campagna sempre in tonaca, ma aperto verso i giovani, la sua umiltà lo distingueva, come la sua profonda cultura, ma non dava a vederlo, Don Cosimo De Siati, il parroco, invece sempre in clerygman, capelli perfettamente in ordine, nel suo ufficio parrocchiale la Brillantina Linetti era ben visibile sullo scaffale in alto a destra della sua scrivania, era un fumatore incallito, a volte altezzoso, ma in fondo non lo era, voleva soltanto sembrarlo, insomma due caratteri importanti, tutti e due grottagliesi, uno figlio di contadini e l’altro figlio di artigiani e a quei tempi questa differenza sociale pesava e tanto. Dopo la risata, mi soffermai a guardare la porticina al fianco della scrivania dov’era seduto Don Cosimo mi alzai e l’aprii, dentro le tuniche rosse e le cotte bianche dei chierichetti, don Cosimo mi seguì con lo sguardo, poi si alzò e mi poggiò la mano sulla testa, Ti ricordi Mario quando facevi il Chierichetto?

In quel momento nelle paretti della memoria come un turbine riaffiorarono i tanti ricordi legati a quella Parrocchia, quando servivo messa, quando litigavamo tra chierichetti per chi doveva portare le ampolline di acqua e vino che il sacerdote versava nel calice, lo stesso toccava suonare i campanelli durante la consacrazione del’ostia e del vino, chi doveva incensare i fedeli durante i funerali e questo era il compito del “Capo chierichetto” l’altro invece aveva soltanto il compito di portare il piattino di rame di forma ovale, durante la comunione, lo si portava sotto la gola di chi prendeva la comunione per evitare che accidentalmente la particola consacrata potesse cadere a terra, conosco

ogni anfratto di quel luogo, ogni angolo, sono letteralmente cresciuto in quegli ambienti, la Parrocchia della madonna del Carmine era una mia seconda casa: Il Natale, La festa di Santa Rita, il Natale, la Pasqua, la processione il giorno di Pascaredda di Cristo Risorto, il giorno della festa in onore alla Madonna del Carmelo, per non parlare delle stanze volute dall’ex Parroco Don Dario dove c’erano i vari incontri tra parrocchiani e dove una manica di cacaz@@ si incontravano per fare una specie di doposcuola, si ma tutto era tranne studiare, ora permettetemi una racconto fantozziano: In quelle buie sale dipinte a catrame nero in più parti scostrato, erano di stanza i seguenti figuri, Io lu capu pacciu, mio cugino Luigi Petraroli, Massimo Manigrasso lu pacciu, Stefano Neve, Domenico Lista, Francesco Caso e sua Sorella Raffaella, Donato Fornaro, Ciro e Giacomo Barletta, Ciro Puzzovio, Francesco Annicchiarico, di questo gruppo ne scriverò in altra occasione come la passione recitata in Chiesa, le recite al locale Biancaneve, in passato il più grande, a mio avviso, autore teatrale di Grottaglie e non solo Giuseppe Vincenzo Cofano ha messo in scena opere in dialetto grottagliese di un certo valore, La Malommra, 30 11 e 6, Lu fattu è quistu, Lu Spiziu, La morte di Puricinella […] Tra i tanti ricordi il Sepolcro della Chiesa Del Carmine resta indelebile, anche perche quel Sepolcro doveva essere il migliore di tutte le altre parrocchie, era questo il pensiero fisso del Parroco Don Cosimo De Siati. Già una ventina di giorni prima il sagrestano il buon Gerado aveva preparato “La Veccia” nella stanza al buio sopra la canonica, una stanza annerita dal fumo credo, sulle pareti erano incise nel tufo interi passi penso del vangelo scritte in greco, si accedeva salendo la prima rampa di scale a sinistra l’ufficio parrocchiale, si girava a destra e bisognava salire un’altra rampa di scale che dava al salone Biancaneve, si saliva un’altro scalino e e la prima porta del corridoio a sinistra, era questa stranissima stanza, dove ogni anno conteneva su vari ripiani di legno questi piatti dove germogliavano i semi.

Il buon Gerardo ogni sera, con l’innaffiatoio saliva tutte quelle scale e: Mario Ah ah dett Do Don Cosim d’innaffiar la Vecc la Veccia. La Veccia altro non era che dei piatti di plastica contenenti tufo bianco in cui erano stati distribuiti le lenticchie e grano e dovevano essere irrorati spesso, perche questi semi una volta germogliati, gli steli restavano bianchi o un verde pallido. I fusti delle lenticchie erano arricciati, quelli del grano invece dritti, sistemati e sfruttando la prospettiva ad arte davano origine a cascate d’acqua, o prati, insomma erano delle sculture viventi. Tutto questo grazie al disegno che aveva preparato chissà quanto tempo prima Don De Siati. Il vero ed unico esecutore materiale dei sepolcri del carmine era un’altro personaggio chiave di quella parrocchia:Beniamino Damuri, sapeva realizzare nei pochi giorni tra la Domenica delle Palme e il Giovedì Santo una vera e propria opera d’arte. Non era mica facile, ho visto realizzare con i pochi mezzi disponibili delle scenografie veramente belle. Beniamino ai miei occhi sapeva fare tutto, elettricista, impiantista, scenogrago, carpentiere, insomma era geniale, starli dietro era difficile: Marino, mi chiamava col nome di mio padre di cui era amico da ragazzo, pigghia quiru filu di corrente e , per fare un ulteriore prolunga, scorticava i cavi di gomma non con l’attrezzo spella fili di oggi, ma con un semplice accendino, si, con la fiamma di un accendino avvicinava il cavo elettrico, appena questo si abbrustoliva, ci soffiava sopra e con indice e pollice spellava il copri cavo e i fili di rame apparavivano puliti e pronti ad essere attorcigliati con i capi della prolunga e isolati con un nastro isolante. Per non parlare di come costruiva, tutta l’impalcatura atta a sorreggere tutta la scenografia del Sepolcro, Pigghia quera tavla, Geràa puerteme li banche tlì suore, sposta l’inginocchiatoio, mantiene lu tripiede, tutta la scenografia era il risultato di tanti materiali di vario genere assemblati ad arte. Una serie di scalini di tavole di legno inchiodate Dio solo sa come, con i chiodi, con le viti, persino col filo di ferro, cullu spagu, dove sistemare la Veccia, il grano, le luci, i fari, i fiori che erano una esclusiva del fioraio Petrosino, alla fine il risultato dopo giornate di intenso lavoro vedevi i due Don Cosimo in fondo alla Chiesa osservare tutta la scena e dare gli ultimi consigli, Beniamì, io penso che quei fiori vanno sistemati più al centro vicino il tabernacolo, invece di quelle luci le sposterei di lato, pareva un set cinematografico, la difficoltà stava anche nel rispettare gli spazi dell’Altare dove poche ore dopo aver terminato il tutto la mattina del Giovedì Santo, la sera si doveva celebrare In Cena Domini e non era cosa facile visti i progetti monumentali di Don Cosimo De Siati.

Dopo la celebrazione iniziava la visita dei sepolcri. La gente entrando rimaneva incantata dalla bellezza dell’opera, si è vero lo riscrivo erano vere opere d’arte a tema, ad ogni faccia sorpresa e magari si sentiva un esclamazione di stupore vedevi il Parroco tutto soddisfatto che non ti dico. Noi il gruppo giovanile si cantava, anche in varie occasioni accadeva sempre qualcosa di strano, un anno la chitarra non ricordo chi la suonasse, faceva le scintille, il microfono se appoggiavi le labbra prendevi una leggera scossa di corrente, quello che suonava il basso gli rimasero incastrate le dita nelle grosse corde dello strumento, io mentre leggevo un passo del vangelo mi cadde a terra lo ripresi e avevo perso il segno e invece di continuare il vangelo lessi un passo dell’Apocalisse insomma era un giorno mesto e funereo e tra noi si rideva con le lacrime, fortuna che la gente non si accorse di nulla, esclusa Mena di Piattieddu che era vicino a noi e nel vederci ridere esclamò furiosa: Cu cc’è curaggiu ritite sobbr’à li patimienti di Cristu? Virgugnateve!!!

Noi scappavamo in sagrestia a ridere comu Ciucce, così ci apostrofò in quell’occasione Don Cosimo Occhibianchi. Un anno dopo aver partecipato alla costruzione come sempre, dopo i canti liturgici della messa In Cena Domini, accadde un patatrack, intorno le ventitre, una delle due colonnine di marmo rosa che sorreggevano l’impalacatura, forse per una perdita d’acqua della fontanina realizzata al centro a rappresentare “L’Acqua viva” dei vangeli, si spezzò e tutto venne giù, compreso il tabernacolo con le ostie conservate. Matonna tlù Carmunu, gridarono i pochi astanti, li Bubb’le Bubb’le alla scasata a pericolo cu si facevounu male.
La mattina dopo lu Sibbolcru parea totta n’outra cousa, nnu runzimientu seinza capu nè cota. Io a all’ora del disastro non c’ero, fu Giuseppina Intermite, Pippina la Fucalara in giorno dopo raccontò l’accaduto urbi et orbis in maniera dettaglita: Stava intra allu liettu, noci sta durmea ancoura, quanna sintemmu Bum… bububbum.. trak tattrak e luccle ti cristiane. Heia mamma cc’è successu? Masou di intra lu liettu e assiu cu la manta n’cueddu, e vitiu cristiane ca assevounu di intra la gghiesia, matonnaa tlà libbera, pinsou, e trasiu intra la gghiesia, e cc’è successu? Tuttu lu sibbulcru era sgarratu, li cannelle n’terra, Don Cosimu Occhibiancu gghigatu ca sta cugghieva l’ostie, lu fumu…nnù disastru, cisape cc’è nnì vò dici lu Signore. Pippina Intermite era una donna straordinaria, conservo un ricordo indelebile nel mio cuore, era la mamma di Gaspare e Antonio, moglie di Francesco Mastro, persona di una bontà d’animo difficilmente describìvibile, sempre allegra, Ahee saluatava la gente che passava da Via Corrado Mastropaolo, Bongiorno Pippì, Ahee ciao Fafaròò, con affetto. Nelle pagine precedenti ho avuto modo di descrivere l’amicizia, la stima, la complicità nell’organizzare eventi nella parrocchia con mia Madre.
Bellissimo, emozionante.Conoscevo i Don due persone diverse tra loro .mi hanno lasciato un bel ricordo.Desiati come insegnante di religione alle scuole medie,Don Cosimo come amico e padre spirituale,sempre pronto ad un consiglio per affrontare al meglio i problemi che si presentavano. Bravo Mario, non ho vissuto la mia infanzia al Carmine .Leggevo e mi vedevo affianco a voi.Bravo!