Tale aumento delle difese, caratterizzò la nascita della dogana aragonese.
L’aumento delle difese nel sec. XIV e XV, da parte di baroni e forestieri, con la conseguente locazione a prezzi alti, a favore del privato signore, a danno del regno al quale dette difese venivano usurpate, danneggiarono l’economia statale e quindi il pascolo e la transumanza.
A dar fine a questo sistema di cose fù, Alfonso D’Aragona il quale nel 1443, dando incarico a Francesco Montluber, nobile catalano, ordinò la ricognizione della DOHANA MENAE PECUDUM , in cui si intendeva segnare una inversione di tendenza rispetto sia alla privatizzazione dei pascoli e alla formazione incontrollata di difese, sia al prevalente indirizzarsi delle rendite sulle greggi transumanti nelle mani dei signori feudali. Tale provvedimento veniva giustificato dall’aumento dei prezzi dei prodotti derivati da tale attività quale la produzione della lana, però intanto l’Aragonese si preoccupava delle sorti di quelle grandi masserie ad alta vocazione cerealicola, i quali ebbero un grave colpo con l’accelerazione verso il pastorale dell’economia pugliese, modificando persino le caratteristiche stesse del paesaggio agrario e sociale delle regione. I funzionari della dogana suddivisero il territorio pugliese, ai fini fiscali, in due zone;
– il Tavoliere e l’area compresa tra l’Adriatico a nord e gli “ appenninos montes e meridie” che si estendeva dall’Ofanto al Salento attraversando la zona interna della terra di Bari.
Oltre alle terre riservate al solo pascolo, il cosi detto “saldo” vi erano le terre e le masserie “di portata” ( che comprendevano una zona per il pascolo bovino, detta “ mezza”, pari ad un quinto del totale); le masserie su cui lo Stato consentiva la coltivazione, in particolar modo di cereali, e secondo la
rotazione quadriennale, in cui due anni erano di riposo da destinare ad uso della dogana.
In tutta la regione la dogana era suddivisa in 43 locazioni, con diversi nominativi, su di esse insistevano lunghi tratturi che avevano una larghezza variabile dai 12 ai 111 metri di larghezza, e su cui nel tempo si andarono formando iazzi e masserie, che costituirono riparo e sosta durante il periodo della transumanza.
E ben chiaro come con l’assetto post-doganale, la terra di Puglia fu sottratta da ricchi terreni sin a quel momento destinata alla attività cerealicola, a favore dell’attività pastorale, questo portò inevitabilmente a contraddizioni sociali, spingendo più che in passato gli uni contro gli altri pastori e contadini, i quali ultimi rivendicavano la legittimità a coltivare terre, data la carestia di beni alimentari.
Reagirono alla riforma doganale sia gli agricoltori privati di fertili terreni, in omaggio alla rigida ed ormai efficiente disciplina fiscale dei pascoli e alla crescente importanza e diffusione dell’allevamento; infatti nel Febbraio del 1484 il Sacro Consiglio Provinciale, presieduto dall’Arcivescovo di Brindisi ed Oria, emise un bando comunicato a Taranto e Grottaglie, con il quale rendeva noto che i coloni e i massari non potevano creare su terreni incolti “DIFESE” per i loro buoi.
Gli effetti negativi sull’ agricoltura pugliese causata dalla ripresa e dal rilancio su più salde basi organizzative della dogana si resero evidenti già dal quattrocento, quando le reazioni dei contadini si indirizzarono su strade diverse, la più praticata alternativa la ricorso legale fù la sottrazione abusiva al demanio di terre fertili.
Ma la variante più comune a questa MALATIA contadina fu’ il ricorso alla lotta armata, alle operazioni di guerriglia e alle azioni di brigantaggio, infatti non è
raro come nel periodo fra il 1458 ed il 1462, gli agricoltori appoggiassero i baroni in lotta contro Ferdinado. Il conflitto tra economia pastorale ed economia agricola, destinato per altro a protrarsi, aggravandosi in età moderna, fu’ tra i principali fattori di accelerazione delle tendenze che già erano in atto nell’organizzazione territoriale e sociale in Puglia: dallo spopolamento delle campagne e dalla concentrazione della popolazione contadina in pochi grandi insediamenti, sino alla trasformazione della figura del produttore rurale da enfiteuta a contadino fittavolo e da colono in vero e proprio salariato giornaliero o stagionale, le figure presenti in maniera rilevante sin la fine degli anni ‘60, all’interno delle masserie.
LE MASSERIE
Verso la metà del XVI secolo, furono espressamente destinate a coltura alcune delle terre, per circa 1500 carra ( pari a circa 37.000 ettari) che sino al quel momento avevano fatto parte del saldo della locazione della dogana: esse furono indicate con l’espressione” MASSERIA NUOVA” o “MASSERIA DI CORTE”, mentre come “MASSERIE VECCHIE” continuarono ad essere distinte le terre di “PORTATA” di età aragonese.
Il termine MASSARIA designa nelle fonti pugliesi fra il 1200 e prima del 1400 una molteplicità di aziende e funzioni estremamente diverse tra loro, dall’azienda di allevamento di suini a quella destinata all’allevamento dei bovini, da quella degli ovini a quella per la monta dei cavalli, ad un particolare contratto di lavoro “ facere massariam” sino alla masseria da campo, che poteva distinguere sia il semplice fondo coltivato e provvisto dell’abitazione colonica, sia la vera e propria fattoria a destinazione cerealicolo-pastorale.
Alla base di una Così ricca varietà tipologica, che naturalmente contrassegnava anche il termine massarius, vanno rintracciate l’ evoluzioni e le modifiche acquisite nel tempo dal significato stesso della massa, che indicava in origine il grande complesso fondiario, il latifondo, l’insieme delle terre e dei possedimenti statali, privati e della chiesa, e che erano passati poi a designare il singolo lotto in cui la MASSA si andava frazionando, sia la
cellula produttiva di proprietà contadina, sia in generale ogni tenuta che si qualificasse come centro di produzione e organizzazione del lavoro agricolo.
È certamente arduo ricondurre in un quadro organico e coerente del territorio pugliese i non sempre puntuali riferimenti alle masserie di privati ed enti: le fonti scritte bassomedievali si limitano molto spesso a segnalare l’esistenza senza approfondire i relativi contenuti.
Nel territorio barlettano, ad esempio, i Capitoli ci dicono che alla fine del XIII secolo, esistevano masserie “animalium et caporum”, i cui prodotti non potevano essere immessi nella città’ senza aver pagato un dazio; il termine massaria è qui usato nel suo significato più lato, in relazione allo sfruttamento agricolo o pastorale di terre ricevute in “ feuudum a curia vel in censum ab ecclesiis”.
È questa la sua eccezione più comune, ne è un esempio quanto contenuto nella costituzione di Carlo d’Angiò del 1283 “de privilegiis et immunitatibus ecclesiarum et ecclesiaticarum personarum,” si stabiliva “ prelati et persone ecclesiastice barones et universi, et singuli homines fidelis domini patris nostri, de reno possint per mare portare et portari faceri de una terra ad aliam infra regnum frumentum et alia victualia et leguminia provenientia eis de MASSARIIS ipsorum, senza pagare jus exiture”
BIBLIOGRAFIA
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(19) A.A.V.V. – 12 masserie del tarantino a cura del circolo Italsider di Taranto.
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(21) Le cento masserie di Crispiano (Taranto) a cura del Comune di Crispiano
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