Di rilevante importanza erano lo sfruttamento dei boschi e delle acque, che vengono identificate nelle diverse fonti con varie terminologie ( silva, nemus, foresta, difesa), il
voci contrarie all’intensificazione della transumanza, voluta da Federico II, che evidentemente avrebbero intaccato il proliferare delle pregiatissime coltivazioni di frumento e di altre colture come le legnose ( vite, ulivo ecc.).Furono proprie le particolari produzioni di vino ed olio, ad inserire, se pur rudimentalmente la prima meccanizzazione dell’attività agricola con la nascita di frantoi e cantine che si andavano ad aggiungere agli esistenti mulini; tali progressi furono d’incentivo all’entrata nell’impero, dei dazi.
Tra le altre colture, praticate in particolar modo in terra d’Otranto alla fine del XV e XVI secolo, abbiamo la coltivazione del gelso, la canna da zucchero, cotone e seta, infatti fu’ proprio il monopolio regio di Federico II e degli Angioini, ad essere penalizzata, vista la particolare ed onerosa tassazione pratica ai mercanti in particolare sulla seta. Di rilevante importanza erano lo sfruttamento dei boschi e delle acque, che vengono identificate nelle diverse fonti con varie terminologie ( silva, nemus, foresta, difesa), il bosco rappresentava nell’economia pugliese bassomedievale un valore di primaria
entità, e contemporaneamente, un contenitore fondamentale di risorse energetiche.
Infatti il suo sfruttamento, traspare il più delle volte dalle charte notarili, oltre agli attrezzi rurali di chiara natura legnosa ed altri usi, quale legname per le macchine belliche dell’epoca, costruzioni navali, costruzioni delle case rurali; il bosco era considerato vicendevolmente sia come un bene naturale da cui trarne frutto e come tale protetto, tale da poterlo utilizzare per legna o luogo di pascolo e quindi di caccia; dall’altro verso esso poteva contrastare con la sua stessa presenza lo sviluppo e l’espansione degli spazi colturali.
Tale uso era regolato dalle norme dello Stato, il quale riusciva a farle rispettare a fronte di un ridotto spazio di manovra per i particolarismi, feudali, ecclesiastici e per usi civici; le lotte e le liti furono incotrastate per poter usare il bosco secondo le consuetudini comunitarie e degli usi civici, molto furono coloro i quali si appropiavano delle aree boschive e dei tributi che li riguardavano, quali il legnatico per la legna, l’erbatico per il foraggio, il ghiantatico, la stessa fida o affidatura per pascolarvi il gregge.
Tale diatribe e lotte ben non si possono ridurre a definirle a semplici battaglie giurisdizionali, ma si possono definire senza meno vere e proprie lotte di classi, di conflitti che investirono e misero in moto agricoltori, allevatori, enfiteuti, pastori, lavoratori a giornata, borghesi e notabili, mercanti e artigiani, funzionari della burocrazia statale e di quella baronale e tutta la schiera di abati, vescovi, preti, chierici che con diverse competenze gestivano un complesso grandioso di terrieri e di immunità fiscali.
In questo orizzonte occorre inserire esempi di uso dei boschi, in particolare nel tarantino, in cui vi era presenza di vaste zone boschive come la selva di Gualdo, e la foresta ( o defesa in agro di Grottaglie di proprietà della Reale Mensa Arcivescovile di Taranto. Infatti per selva di Gualdo, un documento Angioino del 1270 recita a favore dei diritti non oneroso dei tarentini “pascendi herbam, bibendi aquam iacentem et currentem cum animalibus, incidendi ligna et laborandi cum babus. Non c’è dubbio che l’incidenza delle attività pastorali e di allevamento di bestiame sia stata così profonda da influenzare, completare e modificare le basi produttive del territorio agrario pugliese, e così radicata da influire anche sulla struttura mentale dell’epoca.
Ed infatti e proprio un particolare rapporto, di proprietà di bestiame, e del loro tipo, che caratterizzano l’importanza e la posizione nella gerarchia sociale, dell’individuo; non a caso il Principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, per simboleggiare la sua proprietà nel suo enorme complesso di feudi, sulle monete di oro massiccio fece coniare figure di bovini ed ovini, come l’Aragonese Ferdinando fece coniare nel 1472 monete con inciso su una
faccia la sua effige, e sull’altra la testa di un cavallo, ed ancora nel 1447 quella di un Giovanni Caputo di Grottaglie, il padre di quel Francesco che ebbe fama nell’arte orafa, il quale veniva tassato in base al suo avere, e si vede come il bestiame venisse tassato in maniera superiore alla vite.
Infatti mentre 42 piante di vite venivano tassate per 5 tari’, 4 buoi venivano tassati per 12 tari’, il bestiame venne ad assumere nel tempo, merce pregiata e quindi oggetto di scambio, il parco bestiame era costituito in massima parte da ovini, già prima dell’istituzione della DOGANA ARAGONESE, detta MENAE PECUDUM, voluta da Alfonso V d’Aragona nel 1443, affidando la gestione a Francesco Montluber nobile catalano.
L’allevamento degli ovini, per esigenze di foraggio, era ampiamente e da tempo praticata nella forma della transumanza, per cui le greggi di ovini e bovini ed i pastori si spostavano dalle zone montuose dell’Abruzzo, del Molise, della Basilicata, a quella piana del Tavoliere del Salento, per poi ritornare in primavera nei pascoli montani.
Ed è tale fenomeno che vanno inevitabilmente legate, la nascita prima delle vie di percorrenza quali erano i tratturi regi di larghezza variabile da metri 12 ad un massimo metri 111, e lungo queste vie che si sviluppa, o meglio nasce quell’entità extraurbana delle MASSERIE dalle originarie “massae”.
Non è certo un caso, che le più grosse masserie siano nate e sviluppatesi, avendo oggi tracce ben tangibili, proprio lungo questi assi di percorrenza della transumanza. Essi costituivano riparo per le greggi e per i pecorai, riparo o dimora temporanea, sin al ritorno nei pascoli montani.
I dati sulla consistenza e sulla conduzione del patrimonio animale nelle grandi masserie signorili, degli enti ecclesiastici, di ricchi borghesi almeno fino al XV sec. sono alquanto scarse; ma si sa ad esempio che gli Spinelli di Giovinazzo nella prima metà del trecento possedevano in una masseria di Altamura un
elevato numero di pecore; che l’abbazia di Siponto possedeva nel quattrocento un masseria di 4500 ovini e d un allevamento di 400 bovini a Torre Alemanna. Il settore dell’allevamento era radicato nel territorio ma non altrettanto integrato nella economia rurale, data la continua conflittualità sulla necessità di garantire al bestiame pascoli sufficienti a basso prezzo. Queste lotte trovarono riscontro nei capitoli e negli statuti delle città’ pugliesi, come negli interventi del potere centrale. Nei Capitoli di Monopoli del 1404 si fissano pene per coloro i quali conducevano al pascolo il gregge nell’immediato entroterra coltivato, non limitandosi alle zone incolte e così fù in tutto il territorio, così come a Taranto con Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, si rileva la quantificazione della pena ai possessori di animali che avessero arrecato danno al suo territorio. La stima dei danni varia da zona a zona, variando così il lavoro del bestiame, ma anche e sopra tutto la difficile compatibilità di quel tipo di allevamento e pastorizia nei confronti di ogni possibile incremento in senso intensivo dell’agricoltura pugliese, ed il peso notevole che il prelievo fiscale sull’allevamento nel suo complesso rappresentava all’interno della rendita feudale. Di questi dati occorrerà tener conto per comprendere gli indirizzi politici e le scelte economiche sia della monarchia, che dei signori feudali e della grande proprietà Laica ed Ecclesiastica nella seconda metà del quattrocento.
In questo particolare scenario si rileva il paesaggio sociale in Puglia, nel periodo svevo ed angioino, per lungo tempo, la cerealicoltura estensiva la specializzazione viticola ed olearia ; a frenare l’allevamento di bestiame
grosso è uno sviluppo policulturale che non fosse limitato quasi esclusivamente ai margini urbani non furono, tuttavia, semplicemente i caratteri naturali del territorio e l’arretratezza della tecnica e degli strumenti di produzione ; accanto agli interessi dei detentori dei benefici feudali e dei percettori di rendita ebbero un ruolo importanti le opzioni, gli interventi e gli orientamenti delle dinastie che, fra il XIII e XV sec., si succedettero in Italia meridionale. Come si misurano e come incisero gli interessi del potere centrale sulle capacità produttive, sull’organizzazione sociale e sull’assetto del territorio pugliese ?
Una valutazione complessiva è possibile quando si riesca a focalizzare, attraverso le principali tappe e le forme diverse in cui si è manifestato questo intervento, certo non marginale, almeno due questioni di grande rilevanza, da un lato la capacità dei singoli sovrani di gestire, a livello del territorio ed in un sistema feudale per molti versi originali, il rapporto tra esigenze centralizzatrici e forze centrifughe; dall’altro, il modo stesso di intendere la funzione dell’apparato produttivo e, più in generale, dell’intera economia del regno si potranno individuare in questo modo insieme agli elementi costitutivi di quel regime feudale, gli impulsi innovativi e i fattori frenanti che , non solo dall’esterno, hanno contribuito a determinare lo specifico assetto produttivo e sociale delle campagne pugliesi. Il riferimento allo Stato unitario accentratore creato dai Normanni è d’obbligo.
A partire almeno dal 1130, anno della fondazione del regno ad opera di Ruggiero II, data il tentativo concreto e consapevole di far coesistere, in un quadro rilevatosi altamente dinamico e talvolta instabile, l’elemento feudale con una struttura statuale organica. Dovevano fare le spese, come è noto, principalmente le tendenze autonomistiche della città’ e di quel ceto borghese che andava maturando una coscienza nuova dei propri interessi. L’esperienza Normanna venne accelerata in senso ancor più drasticamente accentrato da Federico II, fece assumere in pratica allo stato connotati di un
Ente suprapartes, vigile nei confronti dei Baroni, specialmente nei primi tempi considerati quasi semplici proprietari terrieri, quanto alle fiammate autonomistiche urbane, pronto a far avvertire la sua presenza in ogni piega del sociale, esemplarmente organizzato con una rete di funzionari incaricati di controllare e giudicare in nome e per conto del sovrano in ogni contrada ed in ogni settore. Il regno venne suddiviso in due grandi capitanie, ciascuna delle quali diretta, sul piano giudiziario da un capitano generale o maestro giustiziere, ed in undici provincie, modellate su ambiti territoriali storicamente e geograficamente omogenee: la Puglia comprendeva Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto.
Il giustiziere, i camerati e i procuratori, costituivano le basi di una rete complessa, ma funzionale, all’interno del Regno, una macchina amministrativa che aveva lo scopo di legittimare il consenso e reprimere il dissenso. Già dai primi provvedimenti di Federico, la Costituzione emanata del 1220 a Capua, tesero a recuperare la centralità del potere sovrano e dello Stato. I Baroni furono sottoposti ad una minuziosa verifica del titolo feudale, le città’ si videro invalidare i tratti commerciali autonomamente sottoscritti con repubbliche marinare, i beni e i diritti che spettavano allo Stato furono reclamati con fermezza a cominciare da quelli demaniali: intendiamo per demanio, proclamava lo svevo, sia completo ed integro, ovvero tornino a far parte del demanio città, fortificazioni, castelli, terre, casali, tutto ciò insomma che in passato era appartenuto al demanio. Federico aveva espresso con chiarezza la volontà di proteggere i contadini del Regno ed i loro beni: sia data piena sicurezza a quanti si occupano dei lavori dei campi, “sicchè non avvenga alcun malfattore presume di poter impadronirsi senza pagarne le conseguenze, chiunque violi queste norme dovrà restituire il maltolto per quattro volte il suo valore”.
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