LA STORIA DELL’ISTITUTO STATALE D’ARTE
Il sindaco ed altri dall’emittente televisiva regionale, da qualche mese anticipavano del congresso internazionale della ceramica, con il nostro giornale da molte settimane abbiamo anticipato dell’evento, ed inutilmente non siamo riusciti a “scardinare” l’ottusità di questa compagine ammnistrativa. Abbiamo provato a veicolare la disponibilità di un decano dei ceramisti di ospitare al centro del quartiere delle ceramiche l’importante evento, ma niente. Un luogo a due passi dal Liceo artistico “V. Calò”, in contiguità con decine di botteghe e della struttura produttiva più importante della quartiere delle ceramiche, niente meglio lo “sconfinato” ex Convento dei Cappuccini. Diciamo subito che, la proposta di ospitare il congresso nello ex spazio Agorazein, voleva essere anche una presentazione di un sito che si “offriva” alla città anche per ospitare in futuro le attività, che oggi sono svolte nel Castello Episcopio che oltre ad avere criticità di vario genere, l’arcivescovo ha intimato lo sfratto. L’amministrazione ovviamente non ha risposto, come da tradizione daloniana.
Pegaso.it, vuole offrire il benvenuto ai partecipanti con una pagina di storia dedicata all’ex Istituto d’Arte oggi Liceo artistico “V.Calò”, che conosceranno da lontano e forse godranno delle magnifiche maioliche ospitate nel proprio museo didattico, struttura questa, che determinò nel 2009 a Grottaglie di fregiarsi con il titolo di città d’Arte.
LA STORIA DELL’ISTITUTO STATALE D’ARTE
Il sistema produttivo grottagliese cominciò a dare segni di cedimento già sul finire del XIX secolo; infatti la Scuola, fondata nel 1887, nacque in seguito alla richiesta di un cospicuo numero di ceramisti che caldeggiava la venuta di un tecnico ceramista, dal quale ricevere una serie di consigli per migliorare la produzione.
La risposta governativa alla loro richiesta fu l’istituzione di una scuola serale di ceramica diretta da Camillo De Rossi di Roma; ma, se la estemporanea venuta di un tecnico poteva creare pochi problemi agli operatori locali che avrebbero filtrato, attraverso la loro cultura e la loro esperienza, le indicazioni avute, la fondazione di una istituzione permanente sul territorio poneva certamente tutt’altro ordine di problemi.
Sin dalla sua fondazione la Scuola fu caratterizzata da una interna conflittualità; infatti essa, dopo appena quattro anni, fu chiusa a seguito proprio dei malumori che generava. Così Saverio Pansini scrive in “La Regia scuola d’arte di Grottaglie”.
L’urgente necessità di migliorare il prodotto ceramico che si realizzava in quel tempo a Grottaglie, portò alla riapertura della Scuola che Anselmo De Simone ebbe l’incarico di dirigere. La sua preparazione e la sua formazione professionale, tesa ad una visione produttiva di tipo industriale, mal si conciliava con le esigenze effettive della produzione locale e la mentalità degli artigiani, pronta come era a difendere il patrimonio artistico locale e la propria cultura produttiva che in questa “nuova ottica”, portava una certa lacerazione al sistema.
De Simone, napoletano, prima di approdare a Grottaglie, aveva diretto la manifattura di ceramica artistica Palladini di San Pietro in Lama, in provincia di Lecce. In quella attività si produceva, in massima parte, piastrellame da pavimentazione maiolicato e decorato, prodotto questo che, visto l’indirizzo della fabbrica, doveva essere necessariamente realizzato in serie. È significativo apprendere, leggendo alcuni documenti d’archivio sulla manifattura Palladini, che il De Simone pretendeva essere affiancato da tecnici napoletani che nella predetta azienda occupavano ruoli di responsabilità sia nelle mansioni tecnologiche che in quelle artistiche. L’opera di De Simone a Grottaglie fu lenta ed ostacolata. Il Direttore cercò con tutte le sue forze e la buona volontà, di ritagliarsi uno spazio utile all’interno del paese per poter espletare il suo insegnamento, soprattutto tra i giovani artigiani, e tralasciava sempre quelli che egli stesso definiva “riottosi fabbricanti di stoviglie”.
La relazione datata 1911, scritta di suo pugno,che presentava la scuola di Grottaglie all’esposizione didattica di Torino, è certamente interessante perché in essa il De Simone faceva emergere chiaramente la linea didattica che intendeva attuare. Questa relazione è una impietosa radiografia della situazione grottagliese sia sotto il profilo sociale che produttivo. “Grottaglie – esordisce il De Simone – all’estremo lembo d’Italia, ha soltanto scuole elementari, ed è lontana dalle città nelle quali l’alunno potrebbe apprendere la geometria, elementi di architettura, disegno, ecc., istruzioni tanto necessarie all’inizio di quest’arte. Se si potesse fare a meno di tali studi preliminari, il programma della scuola resterebbe di molto semplificato e gli alunni si atterrebbero al solo insegnamento ceramico. Se egli – continua il De Simone – non conosce le costruzioni geometriche, la misura, lo sviluppo e la compenetrazione dei solidi, non può costruire i suoi oggetti in ceramica, né calcolare il ritiro delle argille che subiscono prima e dopo la cottura di ciascun manufatto, massimo poi se d’ogni singolo modello deve farsene l’originale e la forma in gesso per regolarne la matematica grandezza”. Ma è in altra parte della stessa relazione che il De Simone scatena la sua polemica, quando egli tratta “i criteri sul miglioramento dell’industria figulina”. “Questa industria – scrive il De Simone – che qui in Grottaglie viene esercitata da circa duemila figuli ed in 43 fabbriche, con forni e sistemi primitivi, produce cretaglie o meglio stoviglie di assai rozzo aspetto e pesantissime, ma che tuttavia, per il loro mitissimo prezzo e la bontà del materiale resistente, trovano largo smercio sui mercati meno progrediti della Turchia, Albania e di qualche isola dell’arcipelago greco, nonché qui in Italia, nelle Calabrie, nelle Puglie ed anche in Basilicata. Le argille locali che si usano per queste stoviglie sono povere di allumina, invece ricche di silicati doppi, calcari ed ossido di ferro per cui, ad alta temperatura si deformano e per difetto di cottura escon sempre rosse.
Sicché, per mascherare tale colorazione, è necessario più ossido stannico da introdurre nella calcina per avere uno smalto perfettamente bianco. I figuli sono costretti a ricoprire gli oggetti ancora crudi, con un’engobe, o meglio, con uno strato di gesso caolinico per imbianchirli e, dopo una prima cottura, sottoporli alla smaltatura, abbastanza povera e trasparente, per poi ricuocerli. I forni – sostiene il De Simone – non sono ‘idonei’, per la irrazionale costruzione, l’atmosfera interna si mantiene quasi sempre affumicata ed ossidante, per cui l’ossido di ferro si riduce a silicato di protossido. Per il cattivo funzionamento delle loro fornaci, i fabbricanti sono costretti a fare tre accordi dei loro smalti, cioè duro, tenero e tenerissimo, e quindi adoperare il primo, meno fusibile per quelli oggetti che si collocano nei punti più violenti del calore; gli smalti fusibili, per gli oggetti che si adattano sui primi; e quello più fusibile per i manufatti che si situano sugli strati superiori, ove il calore arriva per irradiazione. Su questi si infornano gli oggetti crudi o ingobbiati”.
Con il rispetto massimo per la persona di Anselmo De Simone, è doveroso correggere certe sue affermazioni di natura squisitamente chimico-tecnologica che, per la verità, mettono in serio dubbio la sua esperienza e le sue conoscenze in tale settore. Non mi sento, infatti, di condividere, anche se animato da buona volontà, quanto egli afferma circa la conduzione della cottura nei forni di tipo grottagliese, né tanto meno, in relazione alle reazioni chimico-fisiche che avvengono nei prodotti ceramici, per effetto della cottura, tra le sostanze che compongono l’argilla. L’ampia analisi che il De Simone fa della situazione grottagliese, se per un verso sottolinea i problemi della produzione e l’atteggiamento dei ceramisti dinnanzi al radicale rinnovamento tecnologico, evidenzia anche e soprattutto il fallimento delle finalità della scuola, a dimostrazione che la stessa aveva mancato il suo naturale inserimento nella realtà produttiva grottagliese. La classe figulina, quindi, rifiutava l’auspicato inserimento nel quadro produttivo nazionale che, nel frattempo, aveva già messo in moto anche in campo ceramico una produzione di tipo seriale, per non troncare le proprie matrici culturali e quindi per non rinnegare la propria identità. I rischi giustificati potevano essere proprio quelli che senza ironia venivano individuati da Walter Weibel nel 1910 a seguito di una visita a Grottaglie, proprio nella scuola d’arte ceramica. “In fine – egli scrive – siamo condotti nella scuola […] Con maggiore raccoglimento si visitano i lavori artistici della scuola. Se uno volesse cambiare il gusto innato e tramandato attraverso i secoli, non potrebbe procedere con altri mezzi. Schizzi non personali di gesso e fiori, quadri mal modellati della Divina Commedia, ridicole teste di donne con un velo messo su di esse capricciosamente, rappresentano il corso di formazione di tre classi. Qua e là, accanto a tutto questo, su di un piatto rotondo, è dipinto un antico schizzo adatto per vaso che fa un effetto diverso da quello che avrebbe avuto sulla superficie curva di un oggetto tipico delle forme grottagliesi. Nelle fabbriche moderne, che considerano con disprezzo i prodotti delle antiche fabbriche, noi verifichiamo le conseguenze di questo insegnamento. Qui nascono quell’infinità di cosettine graziose che empiono il mondo e che non si sa mai donde provengono: piatti da muro con fiori e testine dall’espressione faceta, piccoli vasettini con una rosa attaccata ad essi, calamai di tutte le forme, gondole, stivali, gigli ed altri oggettini adorni di piante fantastiche e di animali; – egli conclude – anche la terra si lascia con pazienza plasmare in queste forme ‘sensate’”.
È opportuno a questo punto una riflessione che nasce spontanea: come poteva la ceramica di Grottaglie nei primi anni del secolo, periodo in cui il De Simone ha diretto la Scuola d’Arte, essere ad un livello così basso, ridotta cioè al rango di ceramica rudimentale o addirittura rozza? Il grande ed interessantissimo patrimonio, vanto e gloria delle botteghe locali, che fine aveva fatto? Come è potuto sfuggire alla visione del maestro De Simone? Oppure c’è da domandarsi se questo patrimonio è mai esistito? o meglio, all’epoca fu considerato nella sua reale importanza così come lo consideriamo oggi giorno? Non ha ritenuto forse il maestro De Simone il patrimonio ceramico grottagliese idoneo ad essere revisionato e aggiornato sotto il profilo tecnico-estetico, per ricavare un prodotto adatto ai tempi e capace di soddisfare le esigenze della società del tempo? In realtà, dai documenti esaminati, non si evince chiaramente cosa e in che modo, il De Simone volesse effettivamente trasformare, in quale aspetto produttivo egli intendesse introdurre le sostanziali modifiche tecnologiche a cui spesso allude nella relazione del 1911.
Mi permetto solo, come del resto ho fatto in precedenza, di porre all’attenzione del lettore gli interrogativi, conseguenza di un’analisi attenta e scrupolosa della situazione produttiva di Grottaglie in quel tempo. Non è chiaro, infatti, come il De Simone intendesse trasformare una produzione costituita da manufatti spesso di notevoli dimensioni, per lo più realizzati al tornio, in un processo produttivo di tipo industriale con l’impiego di materie prime locali. Come egli intendesse realizzare con processi industriali i manufatti che costituiscono il vastissimo patrimonio vascolare grottagliese e in quali forni, che certamente non potevano essere del tipo intermittente – qualsiasi fosse stata la modifica sul piano strutturale – egli intendesse cuocere i manufatti. A tutto questo non ci pare siano state date adeguate risposte. Forse il Direttore De Simone, reduce dalla direzione della Manifattura Palladini, dove, come si è già detto, si realizzava un prodotto che in campo nazionale aveva assunto l’iter industriale, non aveva molto chiare le idee sulla realtà artigiana grottagliese e sulla tipicità dello stesso patrimonio ceramico, immenso per la varietà di forme, nate per uso pratico, che doveva rispondere a requisiti e esigenze ben precise, che ancora oggi sono immutate.
Il tanto discusso forno, per il quale, come si è letto nei documenti d’archivio, si sarebbe scatenato il “conflitto” tra il Direttore e i figuli grottagliesi, non può essere obiettivamente ritenuto unico motivo sufficiente per giustificare i fatti, visto che in campo ceramico ben altro si poteva e si doveva fare sotto il profilo tecnologico, per tentare di mettere in essere la visione del De Simone. Queste riflessioni portano ad un solo interrogativo: in realtà, chi era Anselmo De Simone? Quale, effettivamente, il suo valore professionale? Il Petraroli gli attribuisce lodi e significativi apprezzamenti; definisce il De Simone artista e tecnico ceramico di primissimo piano. Mi permetto, in tutta umiltà, alla luce delle suddette considerazioni, di riconoscere al De Simone grandi, grandissime capacità di raffinato decoratore maiolicaro; di più non mi sento di dire. Al contrario farei violenza alla mia coscienza professionale. La visione dei figuli grottagliesi, compresi i “riottosi”, era, a nostro parere, sana e lungimirante. Il De Simone, pur animato da grande volontà, non capì, forse, che la necessità primaria dell’artigiano ceramista era di sviluppare la ricerca tecnologica sulle materie prime impiegate per la lavorazione, i relativi processi di purificazione e i criteri di composizione dei rivestimenti ceramici, nonché la revisione delle forme tipiche della ceramica locale, finalizzate alle quotidiane necessità. Non vi era certo bisogno di inventare nuove forme e nuovi decori per proiettare la ceramica di Grottaglie in campo nazionale, né, tanto meno, di sottoporre la stessa a processi di fabbricazione seriale, visto che alle spalle di questo patrimonio locale vi erano duemila anni di storia del bacino Mediterraneo e, più esattamente, della civiltà Magno-greca.
Nel 1941 Pasquale Morino scriveva sul “Cellini”: “La tradizione riaffiora sempre, quando è originale. In un certo periodo recente, in Grottaglie si è dovuta deplorare l’infiltrazione di concetti di stile estranei. Si è creduto che fosse bene proporre a questi ceramisti modelli lontani, e per qualche tempo statuette di tipo Lenci e vasi tipo Upim ci hanno fatto rabbrividire e temere. Il periodo sembra ora superato. Tutti hanno compreso che la valorizzazione di Grottaglie può venire solo da una valorizzazione del suo inconfondibile stile, nel cui ambito è possibile produrre opere nuove e modernissime”.
Le indicazioni date da Anselmo De Simone, tutte tese da una forzata industrializzazione della realtà produttiva locale, non solo erano foriere di una tensione culturale, implicita nel cambio del valore semantico dell’oggetto da una realtà artigianale ad un’altra industriale, ma portavano anche ad un continuo ed inesorabile isolamento dell’istituzione scolastica all’interno del paese.
Il De Simone gestì la scuola sino al 1919, anno della sua morte. A sostituirlo fu chiamato nel 1920 Gennaro Conte, insegnante della Scuola di Castelli d’Abruzzo. Il taglio culturale che il nuovo direttore ritenne opportuno dare alla scuola era eminentemente tecnico; ma per le tipologie decorative, il suo indirizzo fu diverso da quello del De Simone. Sin dalla prima relazione redatta dal Conte e inviata al Sindaco di Grottaglie per l’anno scolastico 1921-22, si nota che fu dato maggiore impulso alla ricerca inerente la maiolica decorata, dopo aver abbandonato quella relativa all’arte figulina che tanto aveva appassionato il De Simone. Stupiscono maggiormente in questa relazione le critiche che il nuovo direttore muoveva allo smalto, non quello usato dai figuli, ma quello elaborato dal De Simone. Scrive Panzini che “il Conte si vanta di aver introdotto a Grottaglie, e in particolare di aver insegnato alla scuola la decorazione su smalto crudo e la composizione dello smalto, tecnica certamente più veloce di quella su smalto cotto o a terzo fuoco, prediletta dal vecchio direttore. In particolare lo smalto elaborato dal De Simone non era adatto all’argilla di Grottaglie; infatti, una volta cotto il pezzo, si presentavano delle imperfezioni sulla superficie consistenti in piccole bolle presenti sotto la coperta stannifera che, oltre ad inficiare, distruggevano il disegno sul cotto”.
È opportuno interrompere per un attimo il “racconto” di Panzini, per chiedersi se è vero che nella scuola di Grottaglie, durante la gestione De Simone, non si conoscesse ancora bene lo smalto bianco stannifero, o meglio non si conosceva ancora la tecnica che portava alla composizione del rivestimento vetroso. Tutto questo è molto strano e inesatto, se si considera che le testimonianze lasciate da Anselmo De Simone, dimostrano chiaramente che lo smalto bianco e la relativa decorazione su smalto crudo erano tecniche già acquisite e con lusinghieri risultati dal punto di vista tecnico e artistico. A conferma di quanto si sostiene, è il fatto che non esiste alcuna opera lasciate dal De Simone, tra quelle esistenti nel Museo Didattico delle Maioliche dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, realizzata con la tecnica del terzo fuoco, come afferma il direttore Conte. Tra l’altro, come avrebbe potuto il De Simone auspicare una totale rivoluzione dei processi produttivi grottagliesi, se avesse rilevato che a Grottaglie non si conosceva ancora lo smalto bianco stannifero? Inoltre, come avrebbe potuto il direttore De Simone decorare al terzo fuoco, come afferma il Conte, se il supporto ceramico invetriato non garantiva una efficente superficie di applicazione, visto che la stessa precede la decorazione a terzo fuoco? Quello che ci lascia perplessi nelle affermazioni del direttore Conte è la superficialità con cui tratta gli argomenti tecnologici, che egli ascrive a suo precipuo merito quasi fossero scoperte scientifiche originali e stupefacenti. A nostro parere non emerge dal linguaggio tecnico che il direttore Conte usa – quando si riferisce alle composizione di smalti da lui realizzati -, una convincente competenza nel ramo.
Non ci risulta infatti, dalle testimonianze di insegnanti suoi collaboratori ancora in vita che nell’edificio scolastico dove il Conte ha operato, vi fossero strumenti, strutture o apparecchiature idonee ad attuare un processo di ricerca, sia pure rudimentale, in grado di realizzare smalti stanniferi o esperimenti di altra natura ceramica. Dopo tutto, è molto improbabile che il direttore Conte, proveniente da Castelli con la qualifica di insegnante di disegno, disponesse di un bagaglio di conoscenze tecnologiche così ampio e approfondito che gli consentisse di finalizzare la ricerca sui rivestimenti vetrosi in campo ceramico. Passando agli aspetti didattici, scrive ancora Panzini “…il Conte precisava che nel corso dell’anno scolastico si erano effettuati disegni – a mano libera in stile antico e moderno – con particolare attenzione allo studio delle volute. Era stato anche sperimentato il disegno a memoria. La particolare cura verso questa attività nasceva dal fatto che il disegno dal vero è stato ben avviato dopo che da tanti anni era stato abbandonato in questa scuola …” E per il disegno dal vero era necessario per l’alunno “…conoscere l’organografia, cioè l’anatomia delle piante…” così come si rendeva necessario l’insegnamento dell’anatomia artistica, come studio delle parti superficiali del corpo umano. Queste conoscenze necessitavano – sempre secondo il Conte – per meglio definire le ornamentazioni vegetali da riportare sui vasi. Queste erano, secondo lui, le parti più importanti dell’insegnamento; infatti le altre attività della scuola erano trattate sommariamente.
Ormai la scuola era appoggiata in pieno dal competente Ministero e il 28 dicembre 1922, con regio decreto, fu elevata di grado: cioè a laboratorio-scuola con un conseguente e consistente aumento dei finanziamenti. Il Conte, nella relazione sull’andamento didattico dell’anno scolastico 1922-23, si dichiarava soddisfatto dell’elevamento di grado della scuola e delle maggiori entrate relative ai predetti finanziamenti. Nella medesima vengono ribaditi e chiariti ulteriormente i principi del suo insegnamento. Il momento più significativo della produzione rimane la decorazione, per la quale i suoi sforzi erano principalmente concentrati nell’ampliare le conoscenze degli allievi su un maggior numero di stili decorativi, pur continuando a considerare la decorazione vegetale come elemento centrale, integrandolo con drappeggi, cartocce, festoni, ecc. La scuola aveva prodotto in quell’anno 450 pezzi decorati tutti su smalto crudo. Da questa relazione si può facilmente evincere quale fosse la posizione del Conte rispetto alle forme tradizionali: se da un lato ne riconosceva l’importanza ed in particolare per quella grottagliese, dall’altro mostrava un chiaro interesse per il loro superamento.
Infatti la produzione della scuola comprendeva sia un repertorio di forme tradizionali, fedeli ai loro modelli, sia uno che inseriva gradualmente concetti moderni, spesso legati a motivi decorativi ed architettonici. In pratica, le convinzioni del Conte miravano a conservare dell’antico il carattere e, al tempo stesso, non rimaneva insensibile alle nuove tecniche che, a livello nazionale, si andavano affermando in campo ceramico. In quest’ottica di rinnovamento e di apertura a nuove esperienze si inseriva la richiesta di produrre a Grottaglie sia il grès che la porcellana. Un’altra tecnica che il direttore si vantava di aver introdotto in loco era l’ingobbio inciso che “…ha riscosso successo alla mostra didattica. I risultati sono bellissimi, intendo continuare…” soggiungeva. Come è facile notare, il Conte nella sua relazione aveva perso quegli slanci polemici verso la classe figulina locale, perché l’istituzione, seguendo la linea scelta dal De Simone di non considerare la classe figulina locale nel suo complesso, era andata man mano chiudendosi in sé, lavorando unicamente con gli alunni che sceglievano una preparazione pubblicamente avallata da un titolo di studio, anziché il consueto tirocinio in bottega.
“Comunque – scrive Panzini – la scuola ceramica di Grottaglie continuava ad essere il centro di qualsiasi tipo di intervento educativo e didattico che il governo voleva compiere nella parte sud-est dell’Italia; infatti, proprio nel 1923 a seguito delle conferenze tenute anni prima dal De Simone nell’Avellinese, tre insegnanti della scuola di Grottaglie erano chiamati a fondare una scuola ceramica ad Avellino. Più tardi, verso il 1926, il torniante Ciro Petraroli, sempre della scuola di Grottaglie, andava a dirigere la sperimentale scuola ceramica a Ruvo in provincia di Bari, poi miseramente fallita, dopo essere sorta sotto gli auspici del comitato piccole industrie della Camera di Commercio di Bari e dell’Ente Cultura; il medesimo era impegnato in una serie di corsi nel Salento, in particolare a Lecce e Gallipoli. Nella relazione al Podestà di Grottaglie ed al Ministero dell’Economia Nazionale relativa all’anno scolastico 1923-24, il Conte poneva maggior accento sulle ricerche che la scuola faceva. Da ciò si può dedurre che lo sforzo del direttore si concentrava nel preparare maestranze capaci di introdursi nel più largo giro delle manifatture del centro e nord Italia. Questa – si badi bene – era una tendenza implicita nella linea scelta dal De Simone all’indomani della mostra di Torino, ma assume, col Conte una valenza diversa. Rimaneva, è vero, un certo interesse per le forme locali, ma nessun collegamento venne tentato a livello culturale capace di fondere forme e decorazioni grottagliesi. Con la gestione Conte in pratica, viene meno qualsiasi problematica legata ad un intervento sul territorio, unico scopo rimane quello della preparazione di decoratori capaci di operare in qualsiasi ambito produttivo italiano. Il risultato concreto di quanto si è detto è l’elenco che il Conte allegò alla relazione del 1924, di allievi della scuola di Grottaglie assunti in manifatture di Sesto Fiorentino, di Firenze, Deruta, Potenza, Gallipoli, Vasto, Verona, Arezzo e Nervi”.
Il fausto periodo delle aziende italiane si doveva chiudere proprio nel 1925; infatti la manovra economica che va sotto il nome di “Quota 90”, ovvero un innalzamento forzato della lira, chiudeva il momento della facile espansione. La manovra fu appoggiata dalla grande industria che così vedeva aboliti i dazi che i Paesi europei avevano stabilito contro il competitivo prodotto italiano, mentre portò al malessere completo le piccole industrie e quelle artigiane che commerciavano ancora quasi esclusivamente con i paesi sottosviluppati. Un chiaro sintomo della situazione che si era determinata in Italia è la lettera scritta dal ceramista Giuseppe Del Monaco presidente della società anonima cooperativa industria ceramica di Grottaglie, ed inviata al Podestà della città. “È a tutti nota la grave crisi che l’industria ceramica attraversa con la conseguenza di licenziamento della manodopera. Allo stato attuale delle cose non è neanche da concepire una ripresa di migliore condizione di lavoro e di vendita perché il commercio in genere è segnatamente quello nostro ha subito una profonda depressione per cause molteplici che qui è inutile elencare. Si fa perciò viva alla S.V. Ill.ma affinché voglia persuadere l’agente delle Imposte di Manduria a ridurre sensibilmente la ricchezza mobile della quale siamo gravati in modo troppo aspro. Preghiamo anche di intercedere i suoi buoni uffici affinché per le cretaglie che si mandano per la vendita della nostra provincia si avesse un termine più prolungato perché è inconcepibile che in solo due giorni, si possa smerciare tutto il prodotto. Questo anche uno dei motivi che inceppa seriamente la vendita della nostra produzione. Ringraziandola distintamente Il Presidente Giuseppe Del Monaco”
Di fronte a questa grave crisi ben poco potevano gli sforzi della scuola per un miglioramento del prodotto maiolicato. Come si evince nella relazione al Podestà di Grottaglie e del Ministro della Educazione Nazionale relativa all’anno 1923-24 il Conte diversamente dal De Simone che intravedeva l’unica possibilità di salvezza per l’intero apparato produttivo di Grottaglie nella produzione seriale ed industriale da indirizzarsi principalmente nel sud-est europeo, il Conte, in linea con quello che si andava proponendo a livello nazionale, vedeva nuove possibilità di sviluppo nel campo della ceramica artistica. Ma per migliorare l’intero prodotto grottagliese necessitava una più lunga fase di elaborazione e presa di coscienza della propria cultura da parte degli operatori locali. Indubbiamente il lavoro che si svolgeva nella scuola, l’obbligo dell’insegnamento per quarantotto ore settimanali, l’impegno che insegnanti ed alunni avevano nella produzione della scuola stessa, gli estenuanti disegni di “…tutte le linee della natura…”, le classificazioni degli elementi decorativi per una corretta ed equilibrata utilizzazione, gli studi sugli stili, anche la libertà lasciata all’elaborazione dell’artista, hanno senz’altro lasciato un segno in Grottaglie, hanno contribuito a quel processo di maturazione e di maggiore consapevolezza che di lì a poco dovevano mostrare i produttori grottagliesi. D’altro canto per l’intera classe figulina non era possibile fare i conti con la propria cultura, non era possibile fare un discorso che potesse migliorare l’intera produzione senza confrontarsi con i sistemi produttivi, con ciò che erano capaci di creare le mani dei ceramisti, senza scoprire il perché del formarsi della loro cultura.
Per dominare una produzione, per indirizzarla, per dare una continuità che non facesse sentire agli operatori diretti di essere stati privati di una loro identità culturale e storica, per dare strumenti di controllo e capacità di elaborazione autonoma, era necessaria un’analisi che – come abbiamo visto – non si era ancora affrontata nell’istituzione. Per l’anno scolastico 1924-25 i sussidi per la scuola furono nuovamente aumentati così – ci informa il Conte – fu possibile far conoscere agli alunni la composizione delle terre colorate, la fabbricazione dei colori, il modo di correggere le argille. Si progettava anche di introdurre tecniche completamente sconosciute a Grottaglie come gli smalti cristallini ed i lustri metallici. Comunque il tema centrale della relazione del 1925 era la decorazione ed i problemi connessi tra arte ed artigianato. “Si è ricercata – scriveva il Conte – una sintesi semplice nel disegno con una nitidezza di movimento e di equilibrio delle parti piane e ordine perfetto nella disposizione degli elementi decorativi”. Per quanto concerne lo studio dell’antico il direttore ci informa di un interessante esperimento: “Sono stati sviluppati antichi motivi presenti in oggetti ceramici di una chiesa di Grottaglie”. Purtroppo con questa relazione terminava il fascicolo nell’archivio del Comune di Grottaglie dedicato alla gestione di questo direttore della scuola ceramica. Il Conte diresse la scuola sino al 1933 e molto probabilmente non si discostò mai dalla linea d’intervento che fin qui abbiamo esaminato. Il rapporto con l’ambiente produttivo del paese non doveva essere affatto variato se il Blasi nel 1931 scriveva in un suo articolo sulla rivista “Faenza”: “La nostra tecnica figulina non ha subito modificazioni notevoli; anzi direi è rimasta fedele alle antiche tradizioni, e quasi primitive; se si eccettuano casi sporadici di lodevoli innovazioni nei motivi decorativi e nella maggiore precisione ed accuratezza nella fattura; dovute, più che a libera creazione, a ragioni di adattamento all’esigenze del commercio e alle richieste dei committenti. Oltre a ciò il singolare fenomeno dell’attaccamento dei nostri maiolicari è dimostrato dalle poche simpatie, di cui gode presso di loro la nostra R. Scuola Ceramica, la quale fu creata (anno 1887) allo scopo precipuo di migliorare la vasta produzione figulina paesana, che allora impiegava assai più di un terzo della popolazione.”
Nel frattempo la scuola non dipendeva più dal Ministero dell’Economia Nazionale, bensì da quello dell’Educazione Nazionale. In questo modo la scuola non era più costretta ad intervenire in modo tangibile sulla realtà produttiva. Come primo intervento il Ministero dell’Educazione Nazionale nel 1931 favoriva la costruzione di un nuovo edificio più adatto alle esigenze della scuola. Con il passaggio al Ministero per l’Educazione Nazionale e alla nuova sede, si volle potenziare la scuola ed adeguarla ai nuovi dettami che il dibattito politico sul ruolo dell’artigianato nell’economia italiana imponeva. Infatti a dirigere la scuola furono chiamate personalità affermate ed impegnate nel mondo della ceramica. Per l’anno 1933-34 la direzione fu affidata all’architetto Mario Urbani di Padova che indubbiamente contribuì a dare una maggiore spinta verso uno svecchiamento delle forme e ad introdurre a Grottaglie le problematiche del nascente disegno industriale, portando così l’istituzione sempre più lontano dalla realtà produttiva locale. Di Urbani fu la coppa dorata che la Scuola donò a Benito Mussolini nel 1934. La coppa di maiolica dorata era di gusto equilibrato; una forma a calotta emisferica sorretta da fasci, una tipologia inesistente a Grottaglie, una esemplificazione plastica che traeva origine da forme e da culture differenti dall’arte ceramica praticata a Grottaglie. È interessante notare come il paese, per il passaggio del Primo Ministro, volle presentarsi come la città delle ceramiche, costeggiando da un lato e dall’altro la via che percorse Mussolini, con capasoni ovvero con alte giare. Questo episodio oltre a documentarci l’immagine che la città voleva fornire, ci testimonia come ancora in piena crisi economica esistesse una ingente produzione di oggetti d’uso e quindi quale fosse ancora l’indirizzo produttivo che la stragrande maggioranza delle botteghe perseguiva. Comunque la realizzazione tecnica della coppa era perfetta tanto da trarre in inganno il Duce che si lasciò sfuggire un’espressione di melanconico stupore quando si rese conto che la pesante coppa non era interamente del nobile metallo che lui aveva sperato.
A dirigere la scuola nell’anno scolastico 1935-36 fu chiamato il prof. Carlo Polidori già insegnante presso la scuola di Pesaro e noto studioso di storia della ceramica abruzzese. Senz’altro l’atteggiamento del Polidori riguarda l’attività produttiva di Grottaglie sarebbe stato diverso se il suo unico anno di permanenza nella cittadina non fosse stato caratterizzato da difficoltà incorse con gli organi di gestione della scuola. Una lettera datata 28 maggio 1935 ed inviata dal Polidori al Podestà di Grottaglie, ci mette al corrente di una certa conflittualità esistente tra il Direttore ed il Presidente dell’Istituzione. Il firmatario della lettera parlava di “… calunnie (riferite) contro la mia persona sfociate poi in una ispezione”. Il Polidori non precisava di che origine fossero, ma lamentava la scarsa volontà della presidenza di mediare i rapporti con il corpo insegnante, anzi laconici comunicati che rimproveravano al Direttore scarsa produttività, servivano solo a mantenere difficile la situazione. A questo punto il Direttore sentiva la necessità di ribadire la sua estraneità al paese e quindi di non voler essere coinvolto in quelle che lui definiva “beghe paesane”.
Altro problema che lo aveva visto ripreso dal Presidente era quello relativo all’argilla; infatti la direzione non riusciva a reperirla sul mercato di Grottaglie, né tantomeno riusciva a trovare impianti di depurazione adatti per cui aveva ordinato una quantità di creta dalla ditta Tricca di Sansepolcro che poteva fornirla già depurata. La scuola, come abbiamo visto, aveva già effettuato acquisti di argilla fuori di Grottaglie, e il Direttore, pur precisando di aver solo ripetuto l’ordine alla stessa ditta dell’anno precedente, non scampava a questo boicottaggio interno alla stessa istituzione.
I cambiamento che la scuola aveva subìto negli ultimi anni manifestavano ancora alcuni inconvenienti: gli impianti atti alla produzione non erano ancora completamente installati e così producevano notevoli ritardi nell’insegnamento, l’impiego dei migliori alunni per la riproduzione della coppa Urbani regalata al Duce, portava a disorientamento e confusione nella scuola, così come l’adempimento alle molteplici ordinazioni che la scuola aveva avuto. Il Polidori, sempre nelle stessa lettera, nell’enumerare tutti questi inconvenienti aggiungeva come le materie che non avevano alcuna attinenza con lo studio della ceramica, come la religione, l’educazione fisica e militare e quelli di cultura generale, comportavano un enorme spreco di tempo. In chiusura il Direttore invitava il Podestà ad un intervento risolutivo e chiarificatore verso “… le oscure manovre della Presidenza (che) tendono ad inficiare il mio credito.” Soprattutto dopo l’ispezione ministeriale, giunta senza che la presidenza mettesse al corrente la direzione, il Polidori riteneva inammissibile che “… ora ristabilita la mia efficienza il Presidente perduri nel suo contegno.”
Ma cosa poteva portare il Presidente dell’istituzione a tale atteggiamento? Dalle carte dell’archivio di Grottaglie non emerge alcuna risposta, i documenti, copiosi per il primo periodo, si rarefanno dopo il 1925. Certo è che l’atteggiamento del direttore fu alquanto diverso da quello dei suoi predecessori; il Polidori, anche se sostò il breve periodo di un anno a Grottaglie, nell’ottobre del 1935 pubblicò un articolo sulla rivista “Rassegna dell’Istruzione artistica”, dal titolo “Appunti sulla ceramica in Grottaglie”. In questo articolo era ripreso in esame l’intero assetto produttivo di Grottaglie: le varie botteghe erano divise per tipi di produzione in un’attenta classificazione, si accennava ai mezzi di produzione, si esaminavano alcune tipologie prodotte. L’atteggiamento dell’autore dell’articolo era quello attento dello studioso che vuole comprendere i fenomeni ed il territorio su cui intende operare; siamo ben lontani dai toni scandalizzati ed inquisitori del De Simone, certamente un atteggiamento più corretto e scevro da moralismi, quello del Polidori. L’analisi compiuta su alcune tipologie non si configurava minimamente come ordinamento storico della ceramica grottagliese, bensì sono effettivamente degli appunti che, se da un lato si presentano come un’idealizzazione della situazione locale, dall’altro fanno emergere le incongruenze presenti nello stile grottagliese. Legata a questa situazione è la descrizione di un piatto firmato da Cosimo Fasano e datato 1857: “Non solo è molto interessante, ma sintomatico il fatto che in un piccolo centro della Puglia, ci fosse nel bel mezzo del secolo XIX, un pittore di ceramiche casto e spontaneo, capace ancora di dipingere con sentimento immaginoso e libero quasi fosse un bizantino”.
Il piatto, divenuto poi famoso per la fortunata pubblicazione del Vacca, si configura come un “capo fassa”, cioè come quel piatto che era dato in omaggio e copriva una pila di piatti scevra da decorazione nel catino. Ancora più sotto il Polidori annota: “Si annovera tra la più caratteristica produzione grottagliese una rilevante percentuale di vasi, con pancia a cono tronco e rovesciato e collo alto cilindrico a piede, sempre biansati. Le anse aderiscono alla parte superiore del vaso, o da raccordamenti di rette e curve; spesso dove l’ansa termina è applicata una testa di sfinge, un mascheroncino, una testa leonina. Sono dei saporosissimi “mélanges” di classico, bizantino, musulmano, arabo, neoclassico e persino Luigi Filippo. Fanno pensare a dei voluti conglomerati stilistici, ottenuti da un decoratore in vena di bizzarrie, mentre di fatto sono autentici “pastiches”, scaturiti improvvisi ed estrosi dalle mani di ceramisti strapaesani. Trovi di tutto: squame, greche, rombi, girali, losanghe, nastri, fiori a puntini, foglie quadrilobate, scomparti a serpentina, archetti a sesto acuto, zone a linee incrociate o a zigh-zagh, parti rilevate e altre segnate a tratti incisi o dipinti”.
Questa tipologia, come d’altronde annota il Polidori, era abbastanza diffusa nel paese e trae origine da modelli settecenteschi poi man mano arricchiti da motivi decorativi moderni. Ma ben altri dovevano essere i “pastiches e mélanges” che in qualche maniera si erano diffusi nelle botteghe grottagliesi se il Morino nel 1941 ricordava che “…per qualche tempo statuette tipo Lenci e vasi tipo Upim ci hanno fatto rabbrividire e temere”. Questo purtroppo era il risultato di un’introduzione acritica di modelli estranei alla cultura grottagliese; ancora una volta risultava sconfitta la linea che vedeva come unica soluzione del problema economico e produttivo di Grottaglie l’introduzione di schemi a cui rifarsi, senza fornire ai figuli le capacità di controllo o di elaborazione propria dei dati proposti loro. Questa, ci sembra di comprendere, fosse la proposta culturale del Polidori, intesa cioè al recupero dell’intero assetto produttivo di Grottaglie e della sua originalità creativa.
Il direttore, forse sconfitto dalle “beghe paesane”, lasciava l’istituzione dopo appena un anno, a lui subentrava il prof. Ennio Paoloni di Chiavari. L’anno 1936 fu un anno decisamente importante per la ceramica grottagliese: la scuola partecipava per la prima volta alla Triennale di Milano conseguendovi il “Gran Premio”; Romolo Micera si presentava alla stessa Triennale rompendo così un lungo silenzio che perdurava in questa manifestazione dalla prima Biennale di Monza; Biagio Lista vinceva il Littoriale di quell’anno con un pannello ceramico intitolato “Il ritorno dai campi”, realizzato nella manifattura Calò di Grottaglie, la scuola era rappresentata nella sezione moderna del Museo delle ceramiche di Faenza; la sua rivista infatti riportava: “Medaglione con testa del Duce del prof. Ennio Paoloni eseguito nelle officine della Scuola di Grottaglie”. Quest’altra realtà si affianca inevitabilmente a quella descritta dal Polidori per meglio rendere la drammatica lacerazione che in quel periodo viveva Grottaglie così divisa tra modernismo e propria identità culturale. Anche Paoloni sostò a Grottaglie solo un anno scolastico; i tre direttori che si erano avvicendati, anche se uomini di prestigio, avevano rotto qualsiasi continuità didattica ed avevano, in qualche modo, determinato la sfiducia e la credibilità della scuola dinnanzi al paese.
La gestione del prof. Roberto Rosati proveniente dalla scuola di Disegno Applicata alla Ceramica di Nove in provincia di Vicenza, si dilungherà dal 1937 al 1949, anno della sua morte. La sua lunga permanenza alla direzione della scuola contribuì a ricostituire l’immagine di questa e soprattutto, in un momento in cui erano mutati i termini del dibattito sull’artigianato, seppe riprendere il discorso sulla ceramica grottagliese e contribuire positivamente al termine di quella svolta che, apertasi con l’inizio del secolo ed acuitasi tra le due guerre doveva portare al cambio di mercato dei produttori grottagliesi. In assenza di documenti valga il giudizio del Petraroli che qualifica l’operato del direttore nell’aver saputo cogliere nel recupero storico della cultura locale, il termine di passaggio ad una produzione qualitativamente migliore. Riporta il Petraroli: “Nell’insegnamento si tenne giusto conto dell’aspirazione legittima di una migliore aderenza delle direttive ai caratteri della produzione locale e bandite le riproduzioni servili, si tentò felicemente di far rifiorire l’ingenuo sorriso della ceramica grottagliese-salentina. Il ritorno alle antiche tradizioni locali non fu, come si afferma nell’ultima relazione del Direttore al Commissario, nè gretto nè pedante ma beneinteso e ragionevole, non riproduzione di modelli antichi, ma assimilazione del bello per farlo rifiorire in concezioni geniali, che senza rinnegare le origini, ne affermano l’intima forza di perenne giovinezza; traendo così dal folclore locale e dall’ambiente stesso una fonte inesauribile di ispirazione artistica”.
La Scuola oltre a ben operare nel versante decisamente “artistico” è particolarmente attiva anche dal punto di vista professionale, della formazione artigianale, compito precipuo a cui non può venir meno, e per cui spesso riceve un coro di elogi sia per il modo di condurla sia per i risultati raggiunti. Diventa opinione comune che la Scuola, pur con i “limitatissimi mezzi di cui dispone”, abbia raggiunto un “punto notevolissimo di efficienza”, in gran parte dovuta al fatto che è stato accettato pienamente ed attuato quel desiderio di rinnovamento che, rientrando mirabilmente nell’atmosfera generale creata dal Fascismo, è stato costantemente espresso dal Ministero dell’Educazione Nazionale, per il raffinamento e l’evoluzione del gusto degli artigiani e dello stesso pubblico. “L’atmosfera” tutta fascista che si è creata con il passare degli anni ha acquisito una certa conformazione e caratterizzazione che ha ricevuto anche da parte della Scuola grottagliese un considerevole contributo. In questa direzione la Scuola, come dalle sue intrinseche possibilità, contribuisce a dare un nuovo volto all’arte decorativa, a rinnovarla dopo la stagione della cosìddetta arte tradizionale. Tale rinnovamento però non avviene solo per travaglio e ricerca tutta inerente all’arte decorativa, ma trova motivazione ideale e culturale nella vita attuale, fascista, che tende e più tenderà, a valori formali e figurativi che abbiano un contenuto allegorico e simbolico, e sia espressione rappresentativa e universale. La didattica così come i programmi d’insegnamento, al di là di quelle disposizioni ministeriali molto generiche a cui ci si deve rifare per grandi linee, sono fatti “in casa”, vengono fuori dall’elaborazione e dalla esperienza del corpo degli insegnanti. I programmi, che sono redatti annualmente, e annualmente sottoposti agli organi ministeriali, rispecchiano oltre le potenzialità e gli attributi didattici della Scuola, anche i suoi grandi obbiettivi formativi. A quest’ultimo scopo corrisponde, infatti, l’introduzione nelle materie culturali, che sono italiano, storia, geografia, igiene, matematica e culturale fascista.
In questa direzione infatti il Rosati invita sempre gli insegnanti ad operare. “Nello svolgimento del (…) programma, attenendosi allo spirito con cui è stato tracciato, tenendo anche conto della praticità che deve condurre tutti gli insegnamenti ed il tempo disponibile per le lezioni. Inoltre, il tipo di scolaresca, se pure in essa vi possono essere dei futuri artisti delle arti decorative, la grande maggioranza è costituita da apprendisti artigiani, i quali potranno arrivare ad essere soltanto dei buoni esecutori e non degli ideatori. Però dato lo spirito di rinnovamento che ora sussiste, anche nell’artigianato debbono estendersi quelle nozioni a quella cultura artistica (sia pur limitata) che appunto necessitano per arrivare alla buona ed intelligente interpretazione delle idee degli artisti.”
Anche l’insegnamento delle discipline più tradizionali e “tipicamente” artistiche deve cedere il passo a quella preoccupazione “per la vita pratica”, per l’immediata sorte lavorativa delle centinaia di giovani artigiani grottagliesi che frequentano la Scuola con l’unico scopo di dare al più presto risoluzione al drammatico problema dell’occupazione ben remunerata o adeguatamente remunerativa e solo poche volte di migliorare il proprio bagaglio professionale per una “ricerca” artistica o per una “ricerca” di nuove frontiere dell’attività lavorativa e per fini di lucro e per scopi formali.
Inevitabilmente tutti i programmi del corso risentono di questo orientamento in cui la ricerca della “praticità” alla fine diventa una consuetudine ossessiva e assillante.
Fondato su questi programmi l’insegnamento si caratterizza per la sua praticità permettendo così lo svolgimento dell’ opera della Scuola e quella della bottega in un parallelismo perfetto, senza che ne sia interrotto il contatto. Inoltre questo addestramento artistico non resta solo nell’ambito della scuola; tutte le Mostre locali e le migliori Mostre nazionali sono state abbellite da una produzione abbondante e svariata della Scuola grottagliese, abituando in tal modo il giovane artigiano al contatto con il pubblico e addestrandolo agli urti con la critica, dandogli il senso della sua individualità artistica, che lo obbliga ad elevarsi e a perfezionarsi. La necessità professionale e artistica di partecipare alle mostre, di competere sempre con gli altri trova nella scuola una teoria legittimatrice elaborata secondo i migliori principi dell’ideologia del tempo.
Nel 1949 anno della morte di Roberto Rosati, la direzione della scuola viene affidata al professore Cosimo Calò. Al cambio della direzione si accompagnava anche un rinnovamento di tutta l’attività scolastica, delle finalità istruttive, delle tecniche e dei metodi di insegnamento, dei programmi e via dicendo. Ciò è determinato dal bisogno di ridare slancio e vitalità alla Scuola, la quale, dopo aver patito una lenta decadenza, un’appannamento della sua funzione formativa e professionale, nel corso della seconda metà degli anni Trenta ora esige che vengano operate scelte drastiche, coraggiose e innovative. La Scuola infatti da alcuni anni mostra incapacità a perseguire gli scopi che le sono propri. Dai documenti d’archivio relativi alla gestione del direttore Calò che è durata circa cinque anni, non si colgono elementi o fatti che lascino supporre concretamente l’idea di un cambiamento della linea didattica precedente, segno evidente che la Scuola è rimasta tagliata fuori dai processi di evoluzione e di rinnovamento che in altre scuole d’arte italiane stava prepotentemente attuandosi. Per assistere ad un risveglio della Scuola d’Arte di Grottaglie, bisogna attendere il 1954, anno in cui dopo la direzione Calò la stessa è affidata al Professore Angelo Peluso.
La scuola riesce a trovare certi equilibri di sopravvivenza e a condurre in porto un’apprezzata attività didattica. I programmi per le materie artistiche e di laboratorio conformi al carattere della scuola sono ben coordinati fra loro. Gli insegnanti di disegno geometrico, disegno ornato, disegno professionale e plastica rispondono allo speciale carattere della sezione, come pure i laboratori annessi per le esercitazioni pratiche. Sotto la spinta di questo rinnovato fervore, con tanta voglia di fare bene da parte della direzione e del corpo docente, con il riordinamento operato, le sorti della Scuola sembrano risollevarsi. La nostra scuola è ora più snella, dai contorni e dalle finalità forse più spiccate, risente della nuova “vitalità” acquistata da tutto l’apparato scolastico e si proietta verso l’istruzione artistico-professionale, sempre più immersa nei circuiti delle aspettative sociali delle masse popolari. Il successo sembra decollare subito dopo gli anni ‘60 ed esattamente dal 1961, quando da scuola d’arte diventa Istituto d’Arte per la ceramica. Con la nuova veste giuridica di Scuola superiore di secondo grado, cominciò la stagione dei riconoscimenti quali conseguenze relative alla partecipazione alle varie rassegne e concorsi banditi o patrocinati dal Ministero della Pubblica istruzione nonché da enti pubblici e privati. Il direttore Peluso seppe con abilità, destrezza e notevole competenza coordinare ogni attività della Scuola, compito non sempre facile dato che con l’elevazione a scuola superiore il corpo docente era costituito da insegnanti anziani legati forse giustamente a schemi tradizionali nella vita della scuola, e giovani docenti molti dei quali autentici cavalli di razza, così come li definirà più tardi il Preside Antonio Arces, scalpitanti e ricchi di entusiasmo pronti a dare il meglio della loro capacità professionale. L’affiatamento e la collaborazione tra i docenti, oltre a realizzare prodotti ceramici di pregio e originalità altissima, coinvolgendo gli alunni, costituì il gruppo di coagulo di esperienze nel segno della interdisciplinarità, quale principio moderno dell’attività didattica tanto auspicato ma non sempre facile da raggiungere. L’azione trainante dei docenti fu continua e instancabile. La scuola per effetto di questa continua spinta sostenuta anche da docenti delle materie speculative e scientifiche, subiva un’accelerazione e un dinamismo che si riversava sui discenti e soprattutto verso gli intendimenti che avevano come obiettivo finale la ricerca e la razionalità in ogni operazione artistica e culturale che essi affrontavano con le varie classi. Il direttore Angelo Peluso si rese conto della realtà che doveva gestire, una realtà che si faceva ogni giorno più pesante anche perché durante la sua direzione furono introdotti nella scuola per la prima volta nella storia i decreti delegati quale momento di innovazione socio-democratico sui quali, non ci dilunghiamo nè accenniamo alla loro validità specie in un tipo di scuola come quella a indirizzo artistico. Intanto fra le tante difficoltà il mite e riflessivo direttore Peluso indirizzava la didattica della sua scuola tesa a sviluppare quella coscienza nei giovani che non è soltanto una caratteristica di alcune categorie di privilegiati, ma è comune esigenza e diritto per il miglioramento delle condizioni di vita e del livello di cultura delle masse. Una cura particolare il direttore Peluso la dedicava all’attività artistica connessa ai programmi didattici che dovevano essere espletati nel corso dell’anno scolastico. Egli curava moltissimo il rapporto tra le materie grafiche e i laboratori di esercitazione pratica, convinto che un’organizzazione di questo tipo avrebbe prodotto risultati convincenti che avrebbero consentito ai discenti di cogliere per intero il frutto dell’insegnamento teorico-grafico unicamente a quello sperimentale. Proprio in questo quadro si inseriva l’esigenza di istituire nella scuola la sezione “tecnologica”, visto ormai che la produzione ceramica cresceva a vista d’occhio nel contesto produttivo locale. Ma nonostante le esaurienti relazioni inviate dal direttore Peluso al competente Ministero e gli interventi a titolo personale ripetutamente indirizzati ai funzionari responsabili la tanta agoniata sezione purtroppo non fu istituita. Il giorno… ?… 1976 il direttore Angelo Peluso morì nella direzione dell’Istituto a seguito di un attacco cardiaco. l’istituto d’arte di Grottaglie aveva perduto la sua guida che era uomo saggio e artista di notevole spessore. I meriti che gli dobbiamo riconoscere sono tanti ma consentiteci di sottolineare soltanto la fiducia che riponeva nei giovani allievi, il rispetto e l’ammirazione per le capacità professionali dei suoi insegnanti ai quali ispirava costantemente fiducia, serenità ed entusiasmo.
A dirigere l’istituto d’arte di Grottaglie viene nominato dal competente Ministero della Pubblica Istruzione l’architetto Carlo Martinez, la sua gestione dura solo due anni. In questi due anni che possiamo definire di transizione, sono successe cose folli molto simili agli episodi che caratterizzarono la permanenza nella Scuola d’arte di Grottaglie del direttore Michele Esposito, allora docente presso la locale Scuola sotto la direzione di Roberto Rosati. Il Professore Esposito fu “costretto” a trasferirsi per volere di Gaetano Ballardini a Santo Stefano di Camastra (ME), dove diresse la nascente Scuola di ceramica regionale. perché questo riferimento? perché questo passo indietro? perché quando in una collettività scolastica prendono il sopravvento invidia, la gelosia, la cattiveria e la falsità degli uomini anche se docenti “amici”, le conseguenze sono drammatiche e laceranti. A farne le spese fu il compianto direttore Carlo Martinez il quale pur avendo età matura per distinguere il vero dal falso si lasciò trascinare dalla demoniaca voglia di perseguire professionalmente e penalmente alcuni tra i più sinceri e onesti collaboratori. Questo è solo il succo dei fatti, i documenti ufficiali sull’intera vicenda sono regolarmente depositati presso l’archivio dell’istituto e nei fascicoli personali degli insegnanti e del personale non insegnante “perseguitati”. Ma la verità è difficile da scrivere specie quando a farlo si deve fare nome di persone ancora in vita e tutto sommato sotto il profilo cristiano buoni amici. Le vicende a cui abbiamo accennato non hanno tuttavia intaccato il normale svolgimento delle lezioni ed il relativo espletamento dei programmi didattici, motivo per cui la scolaresca non ha subito per fortuna alcun riflesso negativo. Molto si deve al corpo docente che con senso di responsabilità e scrupoloso attaccamento al dovere, se la scuola ha continuato indisturbata la sua corsa verso quella stabilità e riconosciuto prestigio che durante la gestione Peluso aveva così faticosamente costruito. Nel dicembre del 1978 viene nominato Preside dell’istituto d’arte dell’annessa scuola media il Prof. Antonio Arces. Compito principale del nuovo Preside era quello di ristabilire all’interno del corpo docente e non docente, equilibrio e fiducia condizione indispensabile per riprendere il cammino tracciato dal compianto Angelo Peluso. Il Preside Arces uomo colto, intelligente e lungimirante sorretto sempre da una profonda fede e morale cristiana per prima cosa tese la mano in segno di stima e amicizia a coloro che certamente nel biennio travagliato non gli avevano accordato solidarietà allor quando il Preside Martinez con un atto di censura lo pose nelle condizioni di rispondere personalmente davanti alle autorità competenti. Sotto la sua presidenza, l’istituto ha ricalcato per certi aspetti le orme del direttore Peluso, tuttavia, dobbiamo aggiungere per dovere di correttezza che il Preside Arces grazie alla sua personalità ha arricchito e caratterizzato più ampiamente ogni attività nella Scuola. L’impostazione didattica del giovane Preside mira ad arricchire la linea, attraverso opportuni interventi migliorativi che non hanno mai costituito impedimento all’atto del relativo espletamento. Il suo pensiero mirava a “costringere” la scolaresca a sviluppare le varie esperienze scolastiche attraverso opportune modalità di analisi, sintesi e coordinamento logico al fine di prendere coscienza del proprio patrimonio culturale per accedere via via ad una visione sempre più ampia, per essere in grado di contribuire ad elaborare nuova cultura in prospettiva del futuro. Sarà opportuno – egli sosteneva – far sperimentare agli allievi quante più tecniche possibili in modo che ciascuno possa operare scelte consapevoli ed adeguate alla propria personalità e al tipo di messaggio che intende esprimere, utilizzando materiali alla portata della sua esperienza e della sua creatività per acquistare così, graduale consapevolezza di procedimenti operativi finalizzati ad una valida applicazione pratica. Nell’attuazione dell’itinerario didattico l’insegnante, nel quadro di una programmazione interdisciplinare dovrà opportunamente sollecitare gli interessi e le attività degli allievi con una funzione di stimolo, di coordinamento, di sostegno, in un’azione didattica costantemente aggiornata che rende agli alunni motivati all’apprendimento. Questa in sintesi la sua linea didattica, queste le direttive del Preside Arces.
In questo clima di rinnovato entusiasmo che trova concordi tutti i dicenti si organizzo un piano di lavoro a lunga scadenza ed ebbe come conseguenza la partecipazione dei nostri allievi a tutte le rassegne a concorso raccogliendo riconoscimenti e consensi attraverso una serie di affermazioni certamente prestigiose e significative. Nello stesso tempo anche nella scuola media annessa all’Istituto si viveva un clima di entusiasmo. I docenti, ricchi della loro esperienza, disponendo delle attrezzature, delle materie prime e delle tecniche ceramiche sperimentate nell’Istituto, mietevano successi ed affermazioni sia in campo provinciale, regionale e nazionale. In realtà l’Istituto e la scuola media annessa, sotto la direzione di Antonio Arces alla luce di quanto si è detto ha conquistato la simpatia e la stima di tutti in modo particolare degli uomini che reggono le sorti dell’istituzioni provinciali, regionali e statali che con entusiasmo e sempre nessuna sollecitazione hanno privilegiato la visita nel nostro Istituto allor quando dovevano esibire il meglio del territorio alla personalità in visita ufficiale nella nostra città. Non a caso il Ministero della Pubblica Istruzione accertata la solidità d’impianto della nostra scuola sotto tutti gli aspetti in particolari morali e professionali, che la colloca tra tutti gli istituti più prestigiosi d’Italia, a completamento dell’insiemi ceramici istituisce un corso di restauro ceramico, e subito dopo due nuove “sezioni”. Disciplina Pittorica e Oreficeria. Con questa ultima “fatica” che arricchisce il nostro Istituto di nuovi indirizzi di studio certamente utili al territorio non solo locale ma anche provinciale, il preside Arces lascia la direzione dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie. Nell’ultimo anno del centenario 1987 assume la direzione il Prof. Vincenzo De Filippis.
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